Ritornare all’agricoltura e coltivare la terra è un fenomeno sempre più diffuso nel mondo occidentale ed industrializzato. Sta aumentando sempre più il desiderio di una vita salutare e a contatto con il verde.

Soprattutto in città, dove gli orti urbani sono diventati una realtà consolidata e lo strumento più semplice per questo ritorno alla natura.

Un orto urbano è uno spazio verde, solitamente di proprietà comunale, la cui gestione è affidata, per un periodo di tempo definito, a singoli cittadini, più spesso riuniti in associazioni.

Molto spesso un orto urbano si trova in aree periferiche, e nasce come strumento concreto per combattere il degrado di particolari aree, che proprio grazie a questo tipo di attività possono essere riqualificate in breve tempo.  

In Italia gli orti urbani nacquero nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale quando fu lanciata la campagna per gli ‘Orticelli di Guerra’. Tutto il verde pubblico venne messo a disposizione della popolazione per coltivare verdure e legumi, con l’obiettivo di non lasciare incolto neppure un lembo di terra ed alleviare la mancanza di generi di prima necessità.

Conclusosi quel periodo storico, arriviamo ai giorni nostri, con svariate associazioni e gruppi di cittadini che hanno iniziato a pensare agli orti urbani come mezzo per rilanciare l’agricoltura biologica e promuovere un nuovo tipo di socialità. 

Gli orti urbani infatti aiutano l’ambiente, migliorano il microclima e fanno bene allo sviluppo economico e sociale del territorio: bastano 10-20 metri quadrati di terreno per produrre sufficiente verdura per una persona, per un anno intero.

Da ciò deriva una maggiore tutela della biodiversità agricola e la riduzione della produzione di rifiuti. Ma anche la voglia di fare qualcosa per i problemi climatici, per combattere l’esclusione sociale e la solitudine tipica delle grandi metropoli, o per spendere meno grazie a una filiera agroalimentare estremamente corta. Sono tutti i benefici derivanti dalla presenza di questi utili spazi verdi.

Il più famoso orto urbano del mondo si trova in Italia e più precisamente a Reggio Emilia. Si tratta del vigneto più piccolo del pianeta. Si esaurisce in una ventina di metri quadrati su un terrazzo, in cima ad una palazzina di Via Mari al numero 10, nel centro storico della città emiliana. Dal suo indirizzo, deriva il nome del famoso vino.

La storia di questo vigneto inizia nel 2007: il proprietario, Tullio, compra delle piantine di Sangiovese e le pianta in lunghi vasi rettangolari sul lastrico solare della palazzina che suo padre, immobiliarista e vignaiolo dilettante, gli ha lasciato. Un suo amico ristoratore lo incoraggia e lo mette in contatto con un enologo professionista. L’uva viene pigiata al pianterreno, con l’aiuto dei vicini. Tullio chiede ad un suo amico, disegnatore della Marvel, di realizzare la bella etichetta, in cambio di alcune bottiglie di vino.

La voce si sparge nel quartiere e Tullio organizza una serata in un ristorante stellato, poco distante. La degustazione è accompagnata dalla musica di due violiniste. Ed è così che succede il miracolo: il vino si trasforma con le note del violino.

La cena ha enorme successo, tanto da venire citata su alcuni giornali locali. Alcune settimane dopo, una importante galleria d’arte cittadina si accorda per regalare, agli acquirenti di opere particolarmente costose, una bottiglia di questo vino “musicale”.

È attraverso Facebook però che la notizia della singolare vigna arriva a Edwige Régnier, enologa dell’accademia “Cordon Bleu” di Parigi. Una volta degustatolo, ne rimane colpita e lo fa conoscere in tutta la Francia, attraverso la sua trasmissione televisiva. Da qui l’effetto passa parola è immediato e Tullio inizia a ricevere richieste da tutto il mondo.

Il vigneto più piccolo del mondo, sospeso tra le nuvole, in questo modo subisce una sorta di emancipazione: diventa apolide e proprio per questo rappresenta ancora di più l’intera Italia.

La struttura della terra delle piante, dentro i vasi, è un mix di argilla, calcare, ghiaia e terreno siliceo che proviene da tutte le regioni italiane. La vite, allevata nei vasi, che si arrampica verso l’alto, articolandosi e ricoprendo il terrazzo, tra i tetti rossi del centro storico, crea un effetto sorpresa. Cambia sotto gli occhi del visitatore: non è più un vigneto, ma un’istallazione artistica che ci permette di capire la differenza tra un semplice terreno coltivato e la finezza di una realtà viva e multisensoriale.  Un piccolo orto sospeso tra un mare di nuvole rosse formate da campanili, guglie, vie strette e piazze con gente indaffarata.

Le piante sono nutrite con uova, banane, alghe marine e deiezioni di usignolo. Le voci delle varie etnie, presenti negli appartamenti confinati, nei vari dialetti del mondo, arricchiscono e contaminano l’uva (perché Tullio afferma che la vigna non è mai sorda). La comunicazione tra la vigna e l’uomo che la coltiva diventa un fatto reale. Tutto questo rende il ViaMari10 un vino insolito, affascinante e di grande qualità.

Venticinque bottiglie sono la produzione di un anno.

Questo complesso di elementi armoniosi fa sì che gli acini si esaltino attraverso la musicalità. Per cui, prima di stappare una bottiglia di ViaMari10 bisogna farla vibrare con le note musicali, accostandola alla cassa di un violino. Così si potrà assistere allo spettacolo delle onde sonore, dentro il vetro, che fanno vibrare le molecole organiche, addormentate dal lungo invecchiamento, risvegliando questo suggestivo vino.

Ricordando tuttavia che una bottiglia costa cinquemila euro!

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