L’attuale pandemia di COVID-19 ha mostrato ed accentuato le disuguaglianze presenti nelle popolazioni delle città. Ciò ha riguardato soprattutto l’accesso alle sue risorse così come il nostro luogo di vita quotidiano: la casa.   

All’inizio della pandemia abbiamo assistito ad una fuga, soprattutto della popolazione europea, dalle metropoli verso le seconde case: il cosiddetto “south-working”. Fenomeno accentuato in Italia per la sua particolare conformazione geografica. In altri Paesi è risultato evidente, invece, come molte fasce della popolazione non avessero accesso adeguato a spazi verdi e ricreativi, che sono parte fondante del nostro benessere psicologico e dello sviluppo di una socialità positiva. Una città particolarmente colpita da questo fenomeno è stata New York.

In questo contesto, trova spazio importante il concetto di “social housing” ovvero di come deve essere progettata, oggi e nel futuro, l’edilizia popolare, con rispetto alle mutevoli esigenze del mondo globale.

Quando si esamina questa tipologia di progetti, troviamo spesso soluzioni molto valide ed innovative per ospitare persone con scarse risorse economiche ma, altrettanto spesso, assistiamo al loro completo fallimento. Un buon design deve, infatti, essere affiancato da una attenta cura e manutenzione dei luoghi. Questa deve essere costante nel tempo e deve essere presa in carico dalle amministrazioni locali. Questo aspetto gioca un ruolo fondamentale nella longevità del progetto stesso. La sua mancanza può portare a situazioni di forte degrado e di ulteriore segregazione delle comunità che vi abitano, che dovrebbero, al contrario, essere adeguatamente protette e supportate.

Uno degli esempi più emblematici della natura complessa dell’edilizia pubblica, è il progetto “Cabrini-Green” a Chicago, ben rappresentato nel recente film “Candyman”, di Nia DaCosta. Questo progetto nacque negli anni ’50, quando gli afroamericani migrarono verso il nord degli Stati Uniti, alla ricerca di occupazione. Il consiglio comunale decise di eliminare le baraccopoli esistenti nei quartieri afroamericani per fornire, ai nuovi arrivati, spazi ed abitazioni di un certo livello. Nuove abitazioni vernnero rese immediatamente disponibili.

Il risultato fu però una serie di torrioni monolitici in cemento, mal costruiti e di difficile manutenzione. L’aspetto più emblematico del progetto fu però l’artificiosità con cui queste comunità vennero riunite e tagliate fuori dai quartieri intorno a loro. Nacque così una concentrazione geografica di povertà, amplificata dalla particolare collocazione del “Cabrini-Green”, tra le ricche enclavi di Chicago di Lincoln Park e della Gold Coast.

I residenti, abbandonati, furono costretti ad organizzare in proprio la manutenzione. L’amministrazione cittadina, per risparmiare sui costi, pavimentò di asfalto le aree verdi, lasciando solo piccole aree di aggregazione. I balconi vennero recintati, per impedire di svuotare i bidoni della spazzatura nei cortili sottostanti. Il progetto si trasformò, col tempo, in una vera e propria prigione.

Il “Cabrini-Green” fu un pessimo esempio di come il design possa avere un impatto sociale fortemente negativo. La cattiva manutenzione accentuò poi le condizioni di disagio e di violenza della comunità, diventata poi capro espiatorio del degrado.

In Europa, un grande progetto di edilizia popolare urbana che non è stato, poi, all’altezza delle idee espresse al momento della sua concezione, fu il progetto delle “Vele di Scampia”, a Napoli.

Ideato dall’architetto e urbanista italiano Francesco Di Salvo, tra il 1962 e il 1975, il progetto cercava di ricreare, nel condominio, la natura distintiva dei vicoli e dei cortili di Napoli. Le abitazioni, dalla forma unica a vela, vennero progettate volutamente minimali. Ciò affinché gli spazi esterni condivisi potessero favorire una vivace interazione e vita comunitaria. Questo, tuttavia, non accadde.

Il progetto abitativo non fu realizzato come previsto e le aree verdi vennero da subito abbandonate. Non rispettando il disegno originale, gli ingegneri costruirono i blocchi troppo vicini l’uno all’altro, limitando in tal modo la luce naturale negli appartamenti.

Non vennero costruite le aree di servizio, i centri scolastici e le chiese che sarebbero servite da spina dorsale per rendere viva la comunità. Inoltre, erano previsti spazi comuni, ogni sei piani. Anche questi ultimi non vennero realizzati.

In maniera analoga al “Cabrini-Green”, l’amministrazione comunale svolse un pessimo lavoro di gestione del complesso, assegnando gli appartamenti senza essere completati e privi dei servizi essenziali come i bagni, l’elettricità e il gas. Il terremoto dell’Irpinia, del 1980, peggiorò poi le cose: le famiglie rimaste senza casa, dopo il disastro, occuparono illegalmente gli appartamenti rimasti vuoti.

Anche se alcuni fattori esterni hanno indiscutibilmente contribuito al fallimento delle “Vele di Scampia”, oggi si può affermare che fu soprattutto il suo design architettonico la causa principale del veloce declino.

Il modello di “torre nel parco”, che confonde il confine tra ciò che è spazio pubblico e ciò che è privato, non è l’approccio migliore per scoraggiare la criminalità e sviluppare la socialità e l’interazione. Oggi si studiano progetti che abbracciano le comunità e guardano all’esterno, inglobando l’interno.

Il “Cabrini-Green” e le “Vele di Scampia” ci hanno mostrato che un progetto di residenza pubblica è un lavoro molto complicato e il suo successo dipende da un mix di molti fattori.

Quattro edifici delle “Vele di Scampia” sono stati demoliti tra il 1997 e il 2020. Delle tre rimaste, due saranno presto demolite, mentre l’ultima verrà riqualificata.

Tuttavia, la semplice demolizione di questi progetti urbani “falliti” non risolverà i problemi sociali sottostanti che ne hanno causato il declino. La lezione che occorre tenere presente è che le comunità con meno risorse hanno necessità di un costante ascolto, per individuare soluzioni che mettano al primo posto i loro bisogni.

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