Katuma, Hagadera, Dagahaley, Zaatari o Ifo sono nomi affascinanti che nascondono, tuttavia, uno dei maggiori drammi della nostra epoca.

Sono le cosiddette “città invisibili”: insediamenti informali in Kenya, Giordania, Libano e in altre parti del mondo, che ospitano milioni di rifugiati, per lo più provenienti dai paesi limitrofi. Sono campi temporanei nati più di mezzo secolo fa. Generalmente privi di infrastrutture: solo alcuni hanno scuole e ospedali (Zaatari ha persino un’accademia circense). La maggior parte delle persone che vivono in quei luoghi, non hanno conosciuto nessuna altra città.

L’UNHCR stima che ci siano più di 82 milioni di rifugiati in tutto il mondo, ad oggi. La loro storia parla di persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani e, sempre di più, di disastri naturali e cambiamenti climatici.

Di questi, circa 26 milioni vivono in 40 campi diversi e, più della metà, ha meno di 18 anni. Circa un quarto proviene dalla sola Siria. Ma abbiamo anche 5 milioni di profughi dal Venezuela, 3 dall’Afghanistan e 2 dal Sudan.

Solo negli ultimi anni, l’Europa ha acceso i riflettori sulla crisi migratoria. Questo fenomeno, insieme alla crisi climatica, ha assunto dimensioni globali.

La pandemia del Covid ha, temporaneamente, spostato l’attenzione dal globale al locale. Così la migrazione, come problema mondiale, è assente dall’agenda degli ultimi grandi eventi, come il vertice di Davos di quest’anno.

Anche l’urbanistica, l’architettura e il design si sono particolarmente concentrati sugli effetti della pandemia, sulla dimensione strettamente urbana e su come sarà la nostra vita nel mondo post-covid.

Molto è stato scritto sull’interazione sociale, sempre più spersonalizzata, e sulla necessità di un approccio più umano. Si sono ipotizzati spazi dove poter interagire, luoghi che favoriscano la coesione sociale e che permettano di immaginare una quotidianità più solidale, dove tutto ciò che è importante è a 15 minuti di bicicletta o a piedi. Ma la tendenza sottolinea anche un costante aumento della solitudine e dell’isolamento.

Dove sta la chiave di lettura, in grado di indicarci una giusta via? In grado di affrontare il paradigma della nuova solitudine contrapposto al bisogno di socialità e al proporsi di sfide globali che devono impegnarci tutti nella loro risoluzione?

Parte della risposta ce la possono dare due importanti urbanisti, Edward Soja e Homi Bhabha che hanno definito il “terzo spazio”. Non un luogo fisico, ma uno spazio mentale, un modo di definire la condizione dei residenti delle città moderne che, quasi sicuramente, non sono nati lì. Né luogo di origine, né luogo finale, ma uno spazio temporaneo che include molti altri elementi.

Da questo punto di vista, i rifugiati sono persone che si trovano sradicate, costrette a stabilirsi in un altro Paese, a vivere in un “non luogo”, in una situazione temporanea, un terzo spazio appunto. Essendo sfuggiti da situazioni pericolose, la loro stessa esistenza è messa in discussione: per loro, l’altro è potenzialmente una minaccia. In tali circostanze, come è possibile recuperare i legami sociali? In che modo l’architettura e il design possono aiutare a risolvere questo problema?

Durante la crisi dei rifugiati, l’edilizia abitativa ha in gran parte focalizzato il dibattito sulle infrastrutture in grado di fornire soluzioni adeguate al riparo e alla sicurezza. Per esempio, il vincitore del Premio Pritzker, Shigeru Ban, ha progettato 20.000 nuove case nel campo profughi di Kalobeyei in Kenya, utilizzando un sistema misto, altamente sostenibile, di materiale riciclato di rami, legno e mattoni. Ma oggi occorre affrontare il problema in maniera diversa, ponendoci anche il problema della riconquista di uno spazio identitario.

In questi giorni, ci viene incontro il tema della Biennale di Architettura di Venezia: “Come vivremo insieme?”. Questa è una domanda estremamente importante, utile per ripensare i confini dei luoghi e della loro capacità di determinare l’identità di un individuo.

Da questo punto di vista, rispondere all’importante bisogno di coesione sociale e, contemporaneamente, fornire aiuto alle persone vulnerabili, è fondamentale.

Nei campi profughi, questo è un problema fondamentale. Dovremmo chiederci fino a che punto queste “città invisibili” permettono agli abitanti di interagire tra di loro e con il mondo esterno. Favorendo quindi un processo di identità ed integrazione.

La disposizione tradizionale di alcuni campi profughi in file di tende, oppure gli agglomerati che crescono lungo le linee di confine o si sviluppano accanto alle grandi città, sono soluzioni che uccidono la cultura e l’identità di queste comunità.

L’esistenza di spazi pubblici all’interno dei campi è, invece, fondamentale per la vita della collettività e possono essere anche luoghi per alleviare la pressione e superare la perdita di fiducia e speranza.

Fondamentale è quindi la creazione di spazi di intrattenimento e ricreazione, realizzati preferibilmente con la partecipazione della popolazione locale, con programmi collaborativi basati sulla comprensione delle aspettative degli abitanti. Un pregevole esempio è il parco giochi di Ibtasem che Catalytic Action, una ONG inglese, ha creato negli insediamenti siriani, in Libano.

Allo stesso modo, ci sono altre importanti iniziative come quella lanciata, qualche anno fa, dalla piattaforma “What Design Can Do”, dalla Fondazione Ikea e dall’UNHCR. Le tre organizzazioni hanno lanciato un concorso di idee su come migliorare la vita quotidiana dei rifugiati. Delle oltre 600 candidature, spicca quella intitolata “Reframe Refugees”. Un’idea che ha permesso ai rifugiati di raccontare le loro storie pubblicando, sulla piattaforma, le proprie foto. Una una narrazione che aiuta il mondo a rendersi conto che queste persone hanno gli stessi sogni e le stesse ambizioni di chiunque altro. 

Allontanandoci dal Covid e dalle sue problematiche, fortunatamente si sta riprendendo coscienza e visione dei drammi che stanno oltre il nostro spazio casalingo.

Ecco, quindi, che nel 2022 abbiamo due grandi eventi che tornano a narrare delle “città invisibili”. La biennale itinerante di arte e cultura “Manifesta”, a Pristina, in Kosovo, patrocinata dall’architetto italiano Carlo Ratti, e “Documenta”, una esposizione di arte contemporanea che si tiene, ogni cinque anni, a Kassel, in Germania. In quest’ultimo caso, Ruangrupa, il collettivo indonesiano che ne curerà l’edizione, proporrà particolari stanze della narrazione e del ricordo, in cui le persone possono semplicemente sedersi per parlare dei loro luoghi, di storie dimenticate, di migrazioni e di violenze.

Ci sono motivi di speranza affinché queste “città invisibili” ritornino ad essere ancora vive nella coscienza di ognuno di noi.

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