Questa pittura si presenta lieve ed aerea, tutt’altro che rinunciataria nel fornire una profilatura descrittiva degli oggetti, ma indisponibile alla marcatura disegnativa delle forme, oggetti di cui vengono suggeriti gli spessori senza dover far ricorso all’abbrunamento chiaroscurale delle ombre, ma utilizzando una sorta di impalpabile addensamento cromatico per suggerire la consistenza dei volumi delle cose, delle quali, comunque, non è mai messo in evidenza l’ispessimento della robustezza massiva.

E tale consistenza dei volumi, potremmo anche dire in opposizione alle modalità ‘novecentiste’, di fatto, deve, quindi, ‘virtualizzarsi’ nella effettiva resa creativa di una piattezza planare, che, come sottolinea Elena Pontiggia, segna il punto dirimente in cui “i rapporti tra Novecento e Chiarismo vanno al di là di una mera alternativa cromatica (giacché) il problema non sono solo i colori chiari, che anche molti novecentisti hanno usato, ma l’uso del colore chiaro in funzione antivolumetrica”.

Favoriscono la fioritura di questa pittura ‘chiarista’ le condizioni oggettive delle atmosfere lombarde, con la tipica impermanenza delle nebbie padane, e, non meno, si può aggiungere, le condizioni oggettive delle atmosfere lagunari caratterizzate dalle brume lanose che avvolgono gli spazi e le cose.

Cercando di rendere una descrizione sintetica e ragionevolmente fondata di ciò che può essere considerato il fenomeno ‘chiarista’ nei suoi aspetti contenutistici e formali, occorre dire innanzitutto che questa pittura si presenta leggibile come una metafora della condizione d’addormentamento delle coscienze, o come quella di un ripiegamento e della riflessione, una pittura intima e non intimistica, una pittura che denuncia l’appannamento, ma non l’oscuramento della luce.

E, così, questa pittura che scegli il tonalismo come misura d’equilibrio compositivo cromatico, di fatto, rende testimonianza – noi crediamo sicuramente inconsapevole e preteritenzionale – di una disposizione a resistere, e a non cedere alla violenza prevaricatrice ed all’azzeramento della sensibilità critica, proponendo una prospettiva che noi vorremmo definire della mitezza dell’innocenza disarmata, da non confondere, evidentemente, con l’arrendevolezza di una ingenuità rinunciataria: una prospettiva di lirismo critico.

E sorge una domanda, considerando il rilievo che ebbe nella promozione delle dinamiche ‘chiariste’ l’intervento critico di Edoardo Persico: se l’azione del critico napoletano non sia stata essa il fattore fermentante capace di infondere a questa pittura quello spessore contenutistico che ha reso possibile intendere il ‘Chiarismo’ come un pilastro dell’opposizione antinovecentista, anche se la pratica del ‘dipinger chiaro’, come aveva osservato Giolli, “poteva essere una moda, né ormai originalissima”.

L’approdo a Milano di Persico, nel 1929 può essere illuminante per comprendere meglio la questione. Persico, a Milano, città in cui erano stati lanciati il Futurismo e il movimento sarfattiano di ‘Novecento’, interviene in un contesto in cui egli avrebbe agito come “nella tana del lupo”. Il critico, infatti, “intravide la possibilità di dilatare il campo della propria azione, di pescare a piene mani nel baule della propria cultura, di utilizzare altre indicazioni. Se a Torino (ove aveva saputo dar forza ed indirizzo contenutistico al cosidetto ‘Gruppo dei Sei’ che si era addensato intorno alla figura di Casorati) aveva proposto il richiamo strettamente impressionista… a Milano intuì che poteva spingersi molto più in qua, parlare dell’Espressionismo e del post Espressionismo.

Può trovare una ragione storica, perciò, a questo punto, la domanda se non sia stato Persico più ‘Chiarista’ dei ‘Chiaristi’? compiendo il miracolo di costruire la ragionevolezza critica di quello che può apparire un ossimoro stilistico e, cioè, il darsi ‘espressionistico’ di un orientamento ‘tonale’? La risposta a tale ampia domanda può essere fornita tentando di suggerire un inquadramento del ‘Chiarismo’ che ne definisca la configurazione di ‘gruppo’, più che di ‘movimento’, giustificando così questa pratica creativa, quindi, come una pittura che rende ragione della definizione che noi suggeriamo di ‘lirismo critico’, soprattutto se osserviamo che la sua opposizione al clima del ‘Novecento’ non avvenne in termini di un confronto frontale.

Potremmo ancora aggiungere che anche la ‘Scuola Romana’ si presenterà coi tratti dello stesso ossimoro, oscillando tra ansiti tonali e severità segniche. Questa osservazione di carattere storico non intende, ovviamente, proporre alcun suggerimento di sovrapposizione o di confusione tra fenomeni artistici decisamente diversi, il ‘Chiarismo’ e la ‘Scuola Romana’, ma intende significare, piuttosto, che nel clima politico che il paese allora viveva, nei decenni tra le due guerre mondiali, null’altro poteva rendersi possibile come tentativo di affermazione di un’autonomia di pensiero, se non il ripiegamento sulla singolarità disarmata della propria coscienza, trasformando ciò che in altri tempi si sarebbe potuto considerare come una pittura di ‘deriva sentimentale’, in una affermazione matura di una coscienza soggettiva indisponibile a chinare la fronte.

Che la figura di Persico, d’altronde, sia quella che è possibile intravedere anche alle spalle del gruppo dei ‘Sei di Torino’ e che l’attività dei ‘Quattro di Palermo’ vada sostanzialmente nella stessa direzione è l’ulteriore conferma della pregnanza di un’analisi critica che si appunta su queste specifiche produzioni artistiche. Esse possono essere considerate, nel loro insieme, come voci distoniche rispetto ad un coro novecentista, avendo conto, comunque, che, a guardar bene, tale coro non fu mai armoniosamente intonato, perché formato, complessivamente, da una moltitudine di artisti che avevano sensibilità spesso profondamente differenti, cui non poteva bastare la tenuta ritmica della Sarfatti perché tutti battessero lo stesso tempo all’unisono.

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