Il bisogno artistico di una prospettiva alternativa negli anni tra le due guerre mondiali

Ciò che va imputato al Fascismo non è solo di aver promosso un’azione palesemente repressiva, ma l’aver favorito un processo di narcosi culturale, capace di spegnere le energie più vitali, costringendo la ricerca artistica a vivere, come osserva Giulia Veronesi, nei limiti di una ‘realtà di fatto di una perenne e presuntuosa provincia’. Renzo Modesti, sottolineando i limiti entro cui deve svolgersi l’impegno di lavoro di Edoardo Persico (1900-1936), certamente la mente critica più lucida, allora, in Italia, stigmatizza lapidariamente la questione: “…il critico napoletano si dovette muovere nei limiti angusti di una chiusura politico e utilizzare ansie di rinnovamento tutt’altro che chiare, tese alla ricerca delle proprie ragioni in un delicato momento di riavvio estetico”.

Le posizioni morali e culturali di Persico sono quelle di una mente che guarda lontano, che ha maturato una coscienza critica molto raffinata e perspicace, che tiene conto della realtà internazionale più significativamente producente e che, però, rimane compresso entro i limiti della condizione complessivamente ‘autarchica’ che vive il paese. La visione di Persico di forte tempra ‘spirituale’ non cede mai alle ragioni superficiali di quelle derive ‘spiritualistiche’ che avevano negativamente segnato la stagione fin de siecle, e si mantiene, invece, lucidamente legata ad una prospettiva che potremmo definire di tempra ‘umanitaria’, avendo conto dell’uso di questo termine da parte nostra come sintesi larga di una gradiente di pensiero che va da Renouvier a Maritain, lambendo Gabriel Marcel e sfiorando un Comunitarismo inteso nella lezione cui daranno poi corpo personalità come Giorgio La Pira, Adriano Olivetti e Alexandre Marc.

Il processo innescato dal Fascismo di addormentamento delle coscienze aveva avuto indiscutibilmente successo e il clima culturale di ‘ritorno all’ordine’ degli anni ’20 e ’30 era stato interpretato – come avviene secondo le logiche di ‘Novecento’ – con tutt’altro spirito che del ritorno a quella primigenia purezza che aveva ispirato, ad esempio, ‘Valori Plastici’, e con, invece, una accentuata disposizione alla magniloquenza formale ed alla ostentazione di accenti compositivi.

L’interprete magistrale di tale temperie sarà Mario Sironi (1885-1961) che coglie con pienezza il significato del compito che gli viene assegnato di creare una sorta di credibile leggenda del Fascismo, (Squadristi) una leggenda che deve avere il pregio di esaltare una pregnanza culturale costruendone, al di là del ricorso alla simbologia più retriva, una mitopoietica capace di trasformarsi in matrice emblematica.

E non basta, giacché, analizzando le cose dal versante della cosiddetta ‘opposizione’ e scendendo, quindi, in una più addentrata analisi del rapporto alternativo che alcuni artisti di nuova generazione intesero incardinare in un clima di ‘Novecento’, possiamo osservare – seguendo l’orientamento di pensiero di Modesti – come “l’avversione di quei giovani fu dichiaratamente estetica, non assunse mai le connotazioni della ‘secessione’ di cui, pure esistevano modelli illustri; conservò anzi quelle di un agglomerarsi spontaneo di fervidi umori, di amicizie disposte a consolidarsi sui fatti mantenendo in proprio larga autonomia di esercizio delle intuizioni e delle indicazioni emergenti.

Fu dichiaratamente estetica, ma anche politica, in un progress perfettamente allineato alle situazioni storiche contingenti che nella netta, epperciò, confusa, schematizzazione massificante (fascismo/antifascismo) e nella spietatezza repressiva, non consentivano all’opposizione la esplicazione di una linea d’azione programmatica.

Quei lieviti, si sa, si coagularono a Torino nei ‘Sei’, a Roma nella Scuola Romana, a Milano in ciò che, in modo più esteriore che interiore e dall’esterno, fu denominato, molto a posteriori, ‘Chiarismo’, termine che di quella pittura definiva soltanto la pelle, e cioè la tendenza a ‘dipinger chiaro’, dimenticando che Raffaello Giolli, già nel 1934, aveva precisato: ‘Dipinger chiaro potrebbe essere una moda: né ormai originalissima’, con questo intendendo che a dipinger chiaro erano forse troppi in quegli anni e che ben altre erano le motivazioni dei cosiddetti chiaristi”.

L’appellativo di ‘Chiarismo’, infatti, sarà suggerito non da Persico, che ne è, invece, il mentore e l’ispiratore sul piano contenutistico, ma, come è avvenuto per molti orientamenti artistici dell’età contemporanea, è stato additato nel contesto di interventi di resocontazione di mostre. Leonardo Borghese lo propone, infatti, nel ’35 (nell’Italia Letteraria, a commento di alcune opere presentate nel contesto della VI ‘Sindacale’ Lombarda) e sarà, poi, confermato da Guido Piovene nel ’39 (in un articolo nelle pagine del ‘Corriere della sera’ di commento alla mostra di Lilloni alla Galleria Grande di Milano).

Nel contesto milanese trova, quindi, il suo sviluppo ciò che può essere definito più correttamente come sensibilità, che non come movimento vero e proprio, almeno nella sua fase iniziale, il fenomeno ‘chiarista’, che fu certamente di rilievo e che designa una pittura di impianto figurativo e segnatamente di paesaggio e di ritratto, che si manifesta con modi di aperta luminosità e tonalismo convinto, con l’impegno di almeno cinque artisti che sono Angelo Del Bon (1898-1952), Francesco De Rocchi (1902-1978), Cristoforo De Amicis (1902-1987), Umberto Lilloni (1898-1980) e Adriano di Spilimbergo (1908-1975).

Renzo Margonari, sul punto, fornisce una significativa sottolineatura: “Il Chiarismo non fu tanto un movimento, quanto l’espressione di un clima culturale al quale parteciparono non solo i riconosciuti fautori… ma che interessò anche realtà più vaste, soprattutto in Lombardia, e particolarmente in terra virgiliana”, slargando, così, il contesto strettamente milanese.

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