Ultimo appuntamento con la serie di articoli dedicata al Paesaggio

Si può osservare come il plasticismo delle logiche ‘valoplastiche’ si vada a sciogliere in un soffuso luminismo in cui la consistenza dei volumi non si disperde, ma si dipana secondo una scalettatura di piani ordinati per successive campiture che giovano al pittore per spendersi in un ottenimento di suggerimento d’atmosfera nordica.

Giungiamo agli anni ’40 e vorremmo additare alcuni altri passaggi: una Veduta di Marechiaro ed una Veduta del Ponte di Chiaia. Sono entrambe opere di Ciro Pinto (1905 – 1975), che eredita dal padre Giuseppe una vivace versatilità stilistica che gli consente di realizzare delle godibili pitture d’ambiente, ove, senza nulla cedere alle mode, ma senza neppure esibire anacronistiche nostalgie, si lascia andare ad una convincente freschezza di tocco.

A monte degli anni della Seconda Guerra Mondiale, la pittura di Ciro Pinto, forte anche dei contatti personali che l’artista aveva stabilito con artisti come Ezechiele Guardascione, Attilio Pratella, Giovanni De Martino ed altri, aveva maturato una significativa coscienza critica del ‘Novecentismo’, proponendosi, in alternativa, con un orientamento creativo che, pur non, disdegnando qualche strizzatina d’occhio al Futurismo, finisce col dar corpo ad una linea del tutto personale, fortemente nutrita di sapienze storiche e disponibile anche a godibili sintesi di genere, come avviene in qualche suo dipinto degli anni ’30, in cui fonde, non senza qualche sensibilità onirica, il linguaggio paesaggistico con quello di natura morta (Paesaggio con natura morta, anni ’30).

Dopo il periodo della guerra, agli anni ’50 cin introduce un monocromo di Paolo Cattaneo, artista veronese, nato nel 1932, poi trasferitosi in Sudamerica. Il grafismo composto del Paesaggio con rudere e vela di Cattaneo, del 1954, ci restituisce, in via conciliativa, un aspetto della più classica dimensione vedutistica, quasi indugiando in un afflato di sensibilità romantiche che non sono, tuttavia, manifestazione di attardamento manierato, quanto, piuttosto, di necessità di ritrovamento delle radici e di ri-scoperta di un ordine progettuale nella resa paesaggistica che aiutasse a superare le logiche ‘novecentiste’ ed i paludamenti che le avevano accompagnate, soprattutto nelle prove più magniloquenti ed ufficiali.

Appartengono a tali intemperie anche le prove figurative che propone Rosario Mazzella, anch’egli giovanissimo artista in questi anni del decennio dei Cinquanta. E se di Cattaneo abbiamo messo in evidenza il richiamo alle scaturigini più lontane del vedutismo, per Mazzella invocheremo, invece, la corposità della responsabilità contenutistica cui il Nostro conferisce spessore attraverso la messa in evidenza della forza segnica che intride i suoi valori e li connota di un risentimento espressionistico di particolare efficacia.

Di questo stesso periodo segnaliamo anche qualche altro lavoro, come un Paesaggio incompiuto di Ignoto, che, in realtà, è, più propriamente, un bozzetto di studio d’artista, ove l’autore propone due scorci di paese, che integrano, due istanze figurative che appare particolarmente intrigante poter osservare in una testimonianza d’insieme: permane, cioè, a fianco d’una impostazione pittorica nutrita di tonalismo, un’istanza del calligrafismo ottocentesco post-gigantiano, che osserviamo nella parte, in alto a destra, semplicemente disegnata.

Ed affiancheremo a tale opera anche un altro dipinto, anch’esso di Ignoto artista, un Paesaggio al tramonto che si segnale per la netta disposizione dei piani nella costruzione d’un impianto figurativo in cui si afferma una vibratile istanza di pittura d’atmosfera. Di più puntuali istanze calligrafiche si fa interprete la pittura di Antonio De Angelis, che propone, peraltro, una orchestrazione di soffusi luminismi che creano una convincente atmosfera tonale, come osserviamo nel suo dipinto di Via Santa Maria ai Monti.

Ad una temperie avvertita dell’esigenza innovativa della pittura figurativa della seconda metà del secolo, ove si introducono altri motivi d’interesse figurativo attraverso la riconsiderazione del rapporto della pittura con gli oggetti, nella ripresa d’un aggancio col reale che sviluppa le premesse già poste da Hopper, ma anche dalla stessa stagione della Neue Sachlichkeit, risponderanno gli artisti nel corso degli anni ’60 e ’70 non solo dando corpo alle dinamiche del Realismo di denuncia, che non trovano, tuttavia, una rispondenza ragionevolmente apprezzabile di ordine paesaggistico, ma soprattutto impegnandosi su quei fronti dell’Iperrealismo e dell’Iperfigurazione che segneranno le dinamiche anche dei decenni a seguire.

Ne seguiamo il profilo attraverso prove pittoriche che si scalano d’anni tra gli anni Ottanta e quelli di fine secolo e principio del nuovo nelle opere di artisti come i fratelli Domenico e Mario Falace, Silvano Battimiello, Paolo La Motta, Eugenio Siniscalchi, Lucio Statti. Siamo, ormai, evidentemente, in anni più vicini a noi. la storia si intreccia ineludibilmente con la cronaca, ma non fino al punto di costringerci a rinunciare al gusto di studiarne le profilature più intriganti. Ci soffermiamo, pertanto, su alcune cose che ci piace additare al paziente lettore, all’esito di questa nostra carrellata ‘corsara’ nelle pieghe del Paesaggismo del ‘900.

Osserviamo, pertanto, come di una pratica figurativa estremamente attenta alla restituzione del vero in termini pedissequamente ossequienti, si faccia interprete un raffinato incisore come Luigi Marcon (Castello di Gaeta), mentre altri lavori, come Luigi Grossi, Giuseppe Giannattasio o Antonio Salzano sviluppano un gradiente cromatico che propone una costruzione paesaggistica in termini di referenze luministiche che sembra vadano a recuperare anch’esse – pur nella straordinaria libertà che le distingue – gli ansiti di gioiosità coloristica che Giacinto Gigante aveva scelto a presiedere quella straordinaria Veduta della piana di Caserta che propone della sua vivacità creativa un volto assolutamente distonico rispetto a quel calligrafismo che pur denota altra parte della sua produzione ed al quale, qua e là, noi stessi nel corso di questo ragionamento abbiamo fatto richiamo.

Chiudiamo, infine, questa breve disamina – ribadiamo – ‘corsara’, con un richiamo di netta impronta espressionistica, che si rende apprezzabile nel tocco veloce e vibratile dell’esecuzione e dell’affondamento insistito del segno, dei Paesaggi di Antonio D’Amore e di Salvatore Piccirillo.

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