Il Chiarismo: la seconda serie di articoli per la rubrica Arti Figurative

Gli aspetti significativi della produzione artistica in Italia, durante gli anni del regime fascista, furono quelli di una ricerca che impronta la sua azione creativa secondo un criterio di accorta modellazione stilistica, curando che i risultati ottenuti fossero equilibrati e composti, certamente distinti dalle prammatiche ottocentesche, ma indisponibili a prestarsi a quelli che potevano apparire come ‘eccessi’ cui s erano (o si sarebbero) lasciate andare e cosiddette ‘avanguardie’ dei primi del secolo.

È una posizione, questa, che definirà una condizione di moderatismo che si fa avvertire in tutta Europa, detta anche, più generalmente di ‘ritorno all’ordine’, che non vuole additare un arroccamento su posizioni accademiche e conservatrici, ma, che, al tempo stesso, intende rifuggire dalla scelta di indirizzi sperimentativi che possano risultare intemperanti e arrischiati.

Lo stesso Futurismo – di cui apparirebbe consentaneo alle posizioni muscolari del Fascismo l’atteggiamento spavaldo e sfrontato – è costretto ad individuare opportunità d’indirizzo diverso rispetto a quelle con le quali si era presentato sula scena internazionale con il dettato del ‘Manifesto’ marinettiano del 1909. Alcuni protagonisti di quella prima stagione futurista scompaiono negli anni della prima guerra mondiale (Umberto Boccioni 1882 – 1916, Antonio Santelia 1888-1916), altri, negli anni ’20, gettano sdegnosamente la spugna (Balla 1871-1958), Cangiullo 1884-1977), altri ancora adattano ad un sentire più morbido ed accessibile il proprio indirizzo produttivo anche di ordine pubblicitario (Depero 1892-1960), costruendo modelli di una nuova proposta figurativa, che vorremmo definire accomodatamente decorativa.

Le stesse logiche ‘sarfattiane’, soprattutto dopo la svolta del decennale del regime, nel ’32, mostrano di non essere più pienamente rispondenti a quel bisogno imperioso di ‘ritorno all’ordine’ che ne aveva ispirato il successo. Prende a diffondersi, piuttosto, una frammentazione, che oseremmo definire individualmente ‘revanscista’, al cui interno si affermano ritorni postimpressinistici e postveristici, mentre, generalmente, si afferma con più dilagante ed espansivo successo quel clima da ‘Bagutta’, che, dalla provincia lombarda, si estende in tutto il paese, andando a definire una prassi creativa sostanzialmente rinunciataria ed allineata, che trova specchiamento nelle prospettive da ‘strapaese’, in cui naufraga molta parte della produzione artistica soprattutto del periodo degli anni Trenta, col pencolamento reciproco che si stabilisce fra retorica fascista e conformismo piccolo borghese.

Le mostre ‘sindacali’ provvidamente istituite in tutto il paese hanno il merito di proporsi, principalmente dal 1929 in poi, come una vetrina e, quindi, come una solida ed efficace opportunità di farsi conoscere, soprattutto per quanti vivono nella emarginazione delle provincie. Dal punto di vista politico, esse devono servire a compattare il sentire comune e ad esercitare una azione sotterraneamente propagandistica. Offrono il vantaggio, comunque, di consentire una certa circolazione di idee e di favorire un ascolto di voci che rimarrebbero altrimenti solitarie, escluse e confuse.

Ciò che non riusciranno a fare le ‘Sindacali’ sarà, invece, di promuovere un effettivo avanzamento della ricerca, chiuse come rimangono in una prospettiva di conformismo e di burocrazia, che soffoca e mortifica le spinte più generose, anche se – questo bisogna riconoscerlo – l’intervento di censura che il regime esercita, al di fuori del contesto del ‘Sindacato’, non è sempre particolarmente intenso e gravoso, e si concede che qualche ansito sperimentativo possa trovare opportunità manifestativa, anche se occorre che esso – come avviene ad esempio per l’Uda (Unione Distruttivisti Attivisti) o per i Circumvisionisti, alla fine degli anni ’20 – si presenti piuttosto che nella autonomia di una prospettiva di reale intervento innovatore e d’avanguardia, come ‘variazione sul tema’ delle prospettive futuriste.

Alcune personalità molto attente nel divenire nel processo non spingono in modo particolarmente insistito sull’acceleratore della storia: a noi sembra, ad esempio, che un artista come Enrico Prampolini (1894-1956) abbia avvertito la necessità di alimentare l’evoluzione della sua ricerca con accorto equilibrio, proponendo una cifra di vigile attenzione.

Nasce di qui, probabilmente, da una sorta, quindi, di coscienza del limite, la vivacità di una ricerca, quella, appunto, prampoliana, che appare come la manifestazione di un’energia compressa, di un’istanza che muove all’ottenimento di una sorta di godibilità estetica che possa farsi cifra distintiva di una rinuncia ad un’estrinsecazione formale più direttamente ‘espressiva’. C’è, come dire, in Prampolini, una sorta di ricerca di equilibrio che pregevolmente si mette in mostra, ad esempio, nelle Decorazioni, che egli esegue per la Mostra d’Oltremare di Napoli.

È evidente, ad esempio, in questo caso specifico, aver conto di come l’intervento prampoliano entri in contatto diretto – al di là della reciprocità delle sollecitazioni, ma la cronologia premia la fertilità d’anticipo delle istituzioni delle compagini artistiche partenopee – con l’ambiente più fertile della ricerca napoletana, quello, in particolare, che si era proposto alla fine degli anni ’20 con l’articolazione dell’Uda e del Circumvisionismo (Cocchia, Senza Titolo).

Tali gruppi, occorre dire, avevano dimostrato, nei fatti, come occorresse irretire, in una sorta di ‘mistica’ di regime, la autonomia intellettuale delle proprie sperimentazioni creative più ardite, propriamente d’avanguardia, perché ne risultasse accettabile la proposta intrinsecamente innovativa da far surrettiziamente apparire, invece, come una ‘variazione’ sul tema futurista.

Le Decorazioni prampoliane del Ristorante della Piscina della Mostra d’Oltremare di Napoli, muovendosi lungo una direttrice di prudente sollecitudine, sia sul piano del linguaggio artistico che dei contenuti figurativi, celebrano le imprese d’Africa del regime e costituiscono, quindi, sul piano compositivo, la sperimentazione d’un modello creativo che sfibra la narrazione in una frammentazione segnica che appare particellata e disciolta, quasi come in un controcanto di esperienze surreali condotte con una sensibilità lirica e al tempo stesso quasi inespressamente materica (Ritmi africani).

L’impegno prampoliano dimostra, infatti, che non c’è spazio, nella cultura artistica italiana ‘ufficiale’ del suo tempo, per la messa a punto di un’esperienza creativa che possa dare piena libertà espressiva alle urgenze interiori e che l’innovazione propositiva trova tolleranza d’accoglimento solo nella misura in cui possa apparire come frutto di una sperimentazione di semplici, nuovi linguaggi formali, nei cui confronti, anzi, il regime mostra di voler essere magnanimamente inclusivo ed accogliente, addirittura favorendo una ricerca che si rivolga a proporre inedite istanze di intervento.

La creatività prampoliana, vorremmo aggiungere, si propone come una sorta di atto inespresso, di innovazione rimasta sulla soglia, ricca, evidentemente, di straordinarie suggestioni ed istanze, ma inesorabilmente incompiuta, al di qua del salto verso la piena estrinsecazione dell’ansito materico, ancora tutta dentro la premonizione dell’evento ‘nuclearista’ comunque preconizzato ed annunciato.

Si comprende bene che questo atteggiamento sostanzialmente limitativo del Fascismo, in fondo, proprio evitando di muovere ad una compressione immediata e fermamente repressiva di istanze innovative, come avrebbe provveduto a fare, invece, il Nazismo, con l’intervento di censura sull’Entartete Kunst (1937), di fatto, però, sterilizza la loro portata, mirando a confinare nel ristretto delle enucleazioni formali il portato di una ricerca che potrebbe avere le potenzialità giuste per proporsi di più robusto rilievo contenutistico.

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