Gli artisti, affascinati dal Vesuvio, hanno cercato di descriverne il contesto ambientale con grande vivacità interpretativa delle istanze più fertili e vitali

Gli anni delle scoperte archeologiche settecentesche hanno indirizzato le attenzioni al Vesuvio non solo secondo una prospettiva prettamente ‘naturalistica’, che era quella che, comunque, già caratterizzava l’interesse per questa montagna così significativa e particolare (se ne consideri la rappresentazione che ne fornisce nel ‘600, ad esempio, Micco Spadaro dell’Eruzione del 1631), ma anche secondo una nuova angolazione di ordine culturale più ampio.

Si sarebbe potuto, presto osservare, infatti – già nel corso del ‘700, ma, in particolar modo, nel corso dell’‘800 – che il Vesuvio si prestava a trasformarsi in un’icona del sentimento, riempiendo di ulteriori ragioni di fascino il desiderio dei viaggiatori europei a spingersi nelle plaghe meridionali della penisola italiana, ove avrebbero potuto toccare con mano il significato profondo della consistenza di un mondo scomparso e fissato nel tempo in una sorta di immagine ‘ferma’ della storia.

Le arti figurative – in parte traendo ispirazione da questa prospettiva che definiremo di ordine ‘archeologico’, ma, certo non meno, alimentando il proprio sentire di una vena fruttuosamente romantica – avrebbero provveduto a fornire una ‘imagérie’ del Vesuvio e del suo ambito non solo particolarmente attenta alla descrizione delle peculiarità territoriali, ma anche alla definizione di una profilatura delle sue caratteristiche umane e più ampiamente ambientali.

Come in una felicissima ‘gara’ culturale, artisti di nascita ‘vesuviana’, ma anche napoletani, italiani e stranieri, avrebbero provveduto ad alimentare il mito figurativo del Vesuvio, raccontandone in immagini una lunga storia, che ci parla di vicende umane e sociali, di spigolature locali, di descrizioni minute e quasi lenticolari del territorio.

Da Hackert a Fergola, a tutti gli artisti dell’ambito proprio della ‘Scuola di Posillipo’, è un fiorire, tra declinante ‘700 e primo ‘800, di una proposta di creazione della ‘imagérie’ vesuviana caratterizzata sia dalla messa in evidenza del suo ruolo di presenza non insignificante nel panorama partenopeo, generalmente osservato da Posillipo o da Mergellina, sia dalla descrizione di scorci ambientali peculiarmente distinti nella figurazione di dettaglio di aspetti propri di una condizione di vita significativamente ispirata e governata da questa particolarissima montagna.

Si forma in questo periodo, potremmo soggiungere, la condizione stessa emblematica del Vesuvio che finisce, col descrivere e modellare lo ‘sky-line’ di Napoli.

Unitamente con una produzione creativa, come quella ‘posillipista’, che ancora riveste il rilievo di una sorta di risposta analitica e grafemica ad una ‘curiositas’ indagatrice del dato ‘di natura’, si propone, man mano col tempo, nel corso dell’‘800, una pittura che acquista lo spessore ed il rilievo di una attestazione di coscienza ambientale, quella, in particolare, che si manifesta compiutamente e convincentemente con la cosiddetta ‘Scuola di Resina’, conosciuta anche come ‘Repubblica di Portici’.  

In tale contesto creativo di grande spessore matura una visione dell’arte come impegno ‘sociale’; e si tenta di additare una vocazione propositiva da affidare all’immagine pittorica che possa rendersi capace di conferire alla creatività dell’artista un profilo più lungo e profondo di coscienza ambientale rispetto a quello di una mera descrizione generica e complessiva, come quella che si era affermata, ad esempio, nella produzione – diventata, spesso, purtroppo, seriale – delle ‘gouaches’.

Ecco, quindi, che artisti come Marco De Gregorio o Federico Rossano e De Nittis riescono a dar corpo ad una produzione creativa, tecnicamente ‘di macchia’ che si presenta, in parte prolettica, in parte di affiancamento, di fenomeni artistici di straordinario spessore come quello della temperie macchiaiola o, più tardi, di quella impressionistica.

Fin qui, il contributo fornito dall’arte alla ‘rappresentazione’ dell’ambiente ‘naturale’ vesuviano; ma anche di altri aspetti occorrerà aver conto per poter effettivamente aver conto di una ‘pittura vesuviana’ come di uno specifico ambito creativo che si distingue per una profilatura assolutamente particolare.

Intendiamo dire, in ispecie, che fioriranno artisti di notevole valore che sapranno descrivere con compiutezza di coscienza l’esperienza di vita che conducono quanti abitano ‘nel’ territorio, facendosi credibile testimonianza di una condizione storica ed antropologica molto speciale.

Dall’‘800 al ‘900, in particolare, gli artisti prendono a mettere in evidenza una sorta di doppia scala di osservazione del Vesuvio e del suo ambiente: ciò che noi definiamo con la prospettiva che si apre tra una coscienza della ‘convivenza’ ed una della ‘confidenza’ col vulcano.

E, mentre la prima assume i tratti di una vigile attenzione alle peculiarità territoriali ed alle condizioni ambientali del contesto, la seconda interpreta quelle stesse peculiarità in una chiave di ‘fatalismo feriale’, andandone a distillare le preziosità distintive ed ‘estetiche’ che ne articolano lo spazio e la storia, con la inevitabile conseguenza di stabilire col vulcano, che diventa la ‘montagna’ per antonomasia, un rapporto per molti versi anomalo ed evidentemente asimmetrico, per cui ci si rivolge ad esso con eccessiva  familiarità e, addirittura, talvolta, con una malintesa e, soprattutto, inopportuna intimità.

Dall’‘800 fino ai nostri giorni, si afferma, in tal modo, una prospettiva d’intendimento di questa platea umana e culturale vesuviana che si distingue per la narrazione plurima e variegata che ne sanno fornire le arti figurative, come ci viene testimoniato dagli interventi creativi di artisti che articolano il proprio impegno dalla restituzione godevolmente descrittiva di Giovan Battista Filosa, a quella vividamente espressiva di Nicolas De Corsi, a quella che si carica di ansiti materici di Carlo Montarsolo, a quella, infine che – nelle forme astratto-informali di Salvatore Emblema – cerca di andare a sondare la possibilità di ritrovare, attraverso una disamina analitica del dato ambientale, una ragione, una profilatura logica di ciò che, in modo molto semplice ed immediatamente percepibile, appare come non altro che un capriccio della natura.

Nel bel mezzo dei tempi in cui si producono tutte queste cose, si addensano anche altri aspetti significativi che diventano oggetto di meditazione figurativa di altri artisti: quelli della umanità sofferente descritta da Crisconio, ad esempio, che è capace di testimoniare il legame tra Napoli ed il suo retroterra vesuviano, così come quelli – citiamo qui, di passata, almeno la personalità di Nicola Iuppariello – che proprio di questo stretto e talvolta ambiguo legame di Napoli col Vesuvio sanno fare motivo di sostanza contenutistica, evitando di lasciar scivolare la pratica figurativa lungo quella deriva – in qualche modo oleografica e convenzionale – che ha certamente contribuito a rendere celeberrima la storia e la profilatura del Vesuvio, andando a condizionare un punto di vista creativo non solo più corsivo e tradizionalista, ma anche più decisamente aggiornato, come avviene nel caso della personalità di Warhol, ad esempio, cui si deve il merito (!?) di aver trasformato addirittura il vulcano in una vera e propria icona della temperie ‘pop’.

(Le immagini riprodotte, sono in parte provenienti da fonti di pubblico prelievo, in parte da fonti da cui – ringraziando gli autori – preleviamo nello spirito di utilizzo delle immagini stesse non come aggiunta esornativa del testo, ma come fonte documentativa con impiego equiparabile alla libera citazione di brevi brani di testo. Tra le fonti: Catawiki, Il Sole 24 Ore ecc. L’utilizzo delle immagini non vale, evidentemente ad altro che a fornire una indicazione esemplaristica di area e di periodo creativo, prescindendo da qualsiasi impegno di carattere filologico in ordine alle peculiarità specifiche di ciascuna opera riprodotta.)

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