Una ‘Creazione di Adamo’ di Polidoro da Caravaggio consente di aprire un interessante dibattito sugli esiti della doppia lezione raffaellesca e michelangiolesca e sulla affermazione della subentrante stagione del Manierismo o, meglio dovremmo, forse, dire, ‘dei’ Manierismi cinquecenteschi.

Cominciamo col dire che il termine di ‘Manierismo’ è degenerativo di quello di ‘Maniera’, giacché ‘Manierismo’ dovrebbe segnare il decadimento in pratica corsiva di quel modo di fare arte, che – secondo la prospettiva del Vasari, che della ‘Maniera’ può essere definito il più acuto estimatore – dovrebbe poter costituire il punto di coagulo e di sintesi di tutte le perfezioni e di tutte le bellezze.

A guardar bene le cose, nei primi decenni del ‘500 si consumano le espressioni creative più significative e caratterizzanti della stagione rinascimentale, con Leonardo che ha tracciato con nettezza la sua via e Raffaello e Michelangelo che giungono all’apice della propria forza creativa. Questi due ultimi artisti non hanno tratti significativamente sovrapponibili e le loro due personalità appaiono ben distinte sul piano psicologico ed espressivo, anche se, entrambi partecipano di quel clima di convinta coscienza classicistica che ispira la cultura dei loro anni. L’uno, Raffaello, interpreta le ragioni della ‘bellezza’ delle idee, l’altro, Michelangelo, la ‘forza’ delle idee. Leonardo aveva additato l’evanescenza delle ombre e la vaporosità del pensiero in cui si fondono scienza e poesia.

L’evento del ‘sacco di Roma’ del 1527 viene generalmente considerato una data di grande importanza nel mondo delle arti figurative, giacché da quell’anno prende a dispiegarsi la diaspora degli artisti che, fuggendo dalla città eterna, sciamano nel resto d’Italia ed in Europa, portandovi il ‘verbo’ degli ottenimenti artistici che erano fin lì maturati in Italia e segnatamente a Roma. Non descriveremo qui, in tutti i più minuti dettagli, le vicende articolate e complesse che caratterizzano questa stagione dell’arte italiana ed europea post-sacco di Roma, e tenteremo di osservare come, proprio a partire da questi eventi, si sviluppa la concezione dell’affermarsi della ‘Maniera’, che va intesa non come un semplice tentativo di imitazione della grande pittura di Raffaello o di Michelangelo, ma come la reinterpretazione degli ideali che la ispiravano, ideali che erano ancora quelli, dopo tanti secoli passati, che avevano alimentato la creatività dei grandi artisti della classicità greca e romana.

La Maniera può essere considerata, quindi, come suggerisce Vasari, un ideale da seguire; e, tuttavia, come avverrà, di fatto – e non solo per ragioni di mero opportunismo imitativo – essa andrà presto a tracimare nel ‘Manierismo’, che non è,  così come è stato lasciato intendere -forse, con troppa disinvoltura critica –  una degenerazione della lezione raffaellesco-michelangiolesca, ma un momento di passaggio decisivo da un intendimento d’una visione dell’arte che si voleva ispirata dall’ideale di bellezza a quello di un’arte che interpreta le inquietudini della coscienza.

Consiste appunto in tale passaggio ciò che segna la differenza, che distingue, ad esempio, il giudizio sostanzialmente giubilante del Vasari per la Maniera, appunto, da quello dispregiativo del Bellori o del Baldinucci che la revocano in Manierismo derivativo, finendo col pronunciare, in fondo, anch’essi, un giudizio, tutto sommato, prevenuto e partigiano.

Dov’è la verità? Difficile a dirsi e, forse, può essere utile prendere in considerazione qualche opera e, non meno, qualche autore che ci accompagni lungo questo tormentato percorso che segna soprattutto gli anni della seconda metà del ‘500, non dimenticando noi, intanto, che della partita dei maestri che hanno segnato la linea esemplaristica, fa parte anche Leonardo, già chiamato in causa, e di cui non vorremmo si trascurasse il rilievo.

Rivolgiamo, quindi, la nostra attenzione a qualche artista in particolare; e  scegliamo, alla bisogna, fra i molti, Polidoro da Caravaggio e Francesco Curia, che sono due autori da cui può essere utile prendere le mosse. Osserveremo, quindi, come nel primo si possa quasi vedere il fondersi della sensibilità poetica e flautata di Raffaello con la forza muscolare e robusta di Michelangelo. Polidoro, dopo il sacco di Roma, viene nel Mezzogiorno: si ferma a Napoli, poi va in Sicilia e segna in modo imprimente queste regioni  della sua azione e del portato della sua arte.

Una sua opera, in particolare, una Andata al Calvario, costituisce il punto di coagulo non tanto della sintesi raffaellesco-michelangiolesca, ma di una sensibilità umana che è quella, ormai, che già segna l’interrogazione della coscienza, avviandola verso le regioni del pensiero che saranno presto occupate dall’ansito della ricerca postconciliare che si interroga sulle ragioni della natura con Bruno, osservandone la proiezione infinita dei mondi, non trascurando di guardare alla radice geometrica delle cose, come additerà con non minore fervore Galileo.

Polidoro è un autore libero e maturo; e nella sua opera si osserva tutta la pienezza di un giudizio critico sul passato, un passato che egli sente di dover superare, ma di non voler dimenticare, come dimostra, in modo molto esplicito e significativo, la sintesi raffaellesco-michelangiolesca che egli sa evocare in una sua resa figurativa della Creazione di Adamo.

Cosa muove, allora Polidoro? Un interrogativo difficile da sciogliere e che diventa ancor più complesso se lanciamo uno sguardo a ciò che avviene, intanto, in tutto il resto d’Europa, ove dalla Boemia rudolfina alla Francia di Fontainebleau che cerca di costruire la sua ‘grandeur’, osserviamo la fioritura di quello stile particolare che si nutre dell’avvitamento delle forme lungo ciò che viene definita la soluzione creativa della ‘linea serpentinata’. Nasce la fioritura di una lettura plurima e dilatata delle sensibilità rinascimentali di Raffaello e di Michelangelo e nelle varie regioni d’Europa si declinano ‘maniere’ diverse d’intendere quella lezione.

E qui giungiamo a Francesco Curia, di cui abbiamo già evocato il nome, e giungiamo a Napoli, in particolare, con un artista che – non da solo, evidentemente, nella sua patria partenopea – coltiva la ricerca di soluzioni figurative ben modulate secondo questi ansiti di ricerca che dicono di una sensibilità umana ben avvertita dei tormenti del dubbio e che vorrebbe aprirsi a nuove opportunità di orizzonte e di futuro. Una sua opera in particolare vorremmo additare, una Annunciazione, che, chiudendo idealmente il secolo del ‘500, annuncia, riannodando in sintesi preziosissima e delicatissima le sensibilità raffaellesco-michelangiolesche e, non meno, le impalpabilità vaporose di una reinterpretazione quasi impermanentemente neoleonardesca, va a preconizzare, nei tratti di una composta e pensosa complessità psicologica e morale, l’avvento d’una nuova epoca che segnerà, col secolo del ‘600, l’ingresso dell’Europa nella modernità.

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