Il suo modo di combattere i pregiudizi era il metodo della ‘Non-violenza’, come quella di Gandhi prima di lui
La campagna di protesta contro gli autobus, nella città di Montgomery, durò ben trecento ottanta giorni e le perdite furono disastrose, per la società che gestiva i mezzi di trasporto. La comunità nera boicottò, per tutto quel tempo, l’utilizzo di quel mezzo di trasporto determinando, anche, ad una vittoria meramente storica anche sotto il profilo giuridico con la sentenza pronunciata, in merito alla vicenda, da parte della Corte Suprema il 9 novembre del 1956 e la sua rivoluzione non si fermò lì.
Le sue proteste, i suoi sermoni, le sue parole e, soprattutto, il modo con cui permise il raggiungimento di vittorie che avevano il sapore di mere conquiste sociali che, per la comunità nera, rappresentavano una vera e propria manna dal cielo, illuminando le coscienze di tutta la società statunitense fa scuola ancora oggi. La protesta pacifica raggiunse l’apice il 28 agosto del 1963, con l’immortale frase; ‘I Have Dream’.
Grazie a queste parole gli venne assegnato il Premio Nobel per la pace, nel 1964. Nel 1965, Martin Luther King riuscì anche in un’altra impresa: quella del riconoscimento del diritto di voto ai neri. Ciò che accadde a Selma, nel marzo di quell’anno, è espressione del più fulgido esempio di come si può arrivare ad aprire la mente delle persone senza bisogno di alimentare odio e rancore.
I Reverendo della chiesa di Ebenezer riuscì a trovare un modo per scalfire quel muro apparentemente insuperabile in cui, in quel periodo storico, faceva sembrare tutti i bianchi omertosi. Non tutti la pensavano in quella maniera e non tutti credevano che i ‘separati ma uguali’ fosse di fatto la giusta soluzione.
Da quel momento in poi, considerando sempre le sue vittorie sociali bisogna ricordare che ogni scuola, ogni università, ogni mezzo di trasporto, ogni ufficio iniziava ad essere aperto ai neri. Anche per il diritto di voto fu la stessa cosa. A causa delle leggi Jim Crow, in vigore solo ed esclusivamente nel profondo su degli Stati Uniti, ai neri veniva sistematicamente e con tutti i modi vietato il riconoscimento del diritto di recarsi alle urne.
Alla base di tutto sussisteva un motivo molto semplice: una volta registrato nella lista elettorale, il cittadino poteva essere nominato, proprio perché era iscritto nelle liste elettorali, per partecipare ai processi penali in qualità di giurato. Considerando che negli Stati del Sud i crimini commessi contro i neri erano, palesemente, a sfondo razziale, era chiaro il senso di tale divieto. Una giuria tutta nera o comunque con un solo componente proveniente dalla comunità afroamericana non era consentita.
Con il tempo, Martin Luther King iniziò a pagare a caro prezzo questo suo impegno. Venne molte volte arrestato e si dice, durante tutto quel periodo, a farlo uscire su cauzione non furono quelli della Naacp, ovvero l’associazione nazionale per la promozione delle persone di colore, un’organizzazione che si batteva a favore del progresso dei neri, ma da qualcuno molto in alto che, dal 1960 in poi, divenne Ministro di Giustizia durante la presidenza di suo fratello: Robert Francis Kennedy, semplicemente Bobby.
Bob Kennedy seguì molto la lotta che intraprese il premio Nobel per la pace del 1964, la osservò attentamente. Quel modo di fare, quel modo di parlare ma soprattutto di anteporsi al pregiudizio in un modo del tutto passivo, trasformandolo in un modo del tutto attivo, quasi come un’arma, fu letale per chiunque si opponesse a coloro che non volevano che la situazione negli Usa mutasse. La cosiddetta ‘non – violenza’ non fu comunque idea del Reverendo afroamericano ma qualcuno prima di lui che non nacque e visse negli Stati Uniti d’America.
Qualche decennio prima, in India, fu il Mahatma Gandhi ad attuare questo metodo per liberare il popolo indiano dall’Impero britannico. Una forma di protesta che lo portò incontro al martirio il 30 gennaio del 1948. Martin Luther King più otteneva vittorie significative e più otteneva consensi. Più otteneva consensi e più attirava nemici che, in un modo o nell’altro cercavano di contrastarlo.
L’appuntamento con il destino non sarebbe mancato e di questo lui ne era consapevole. Più volte aveva rischiato di morire. Più volte mise anche a repentaglio la vita della sua famiglia. Nella sua autobiografia, pubblicata postuma a cura di Clayborne Carson, affermava esplicitamente di dedicarsi a qualcosa di alto, qualcosa comunque di ambizioso.
Ma più andava avanti e più sapeva che prima o poi la corda si sarebbe spezzata. Cosa che avvenne il 4 aprile del 1968, alimentando sempre di più il clima di paura e d’incertezza che c’era in quegli anni in America. molto probabilmente inaugurati il 22 novembre del 1963 a Dallas. Un caso, vero?
Dunque, tutte quelle vittorie lo fecero arrivare, molto probabilmente, alla sfida più grande. Ovvero quella di fermare l’escalation della guerra in Viet-Nam, da cui proveniva quel periodo turbolento in America, con un’altra grande manifestazione a Washington. Quella manifestazione non avvenne. Un cecchino pose fine alla sua vita e alla sua voglia di cambiare il mondo e da qui inizia un’altra storia: quella del mistero del suo assassinio.
Erano le 6 pomeridiane del 4 aprile del 1968, il Reverendo Martin Luther King si era recato nella città di Elvis Presley per appoggiare la gusta protesta di alcuni lavoratori afroamericani, operanti in strutture sanitarie, i quali erano sottopagati. Lo sciopero di questi lavoratori iniziò l’11 febbraio di quello stesso anno. King si recò più volte per manifestare concretamente il proprio sostegno alla causa.
Si recò anche quella volta. La sera prima del vile attentato tenne un discorso al… in cui affermò di aver essere salito sulla montagna e di aver visto il suo sogno realizzarsi. Ma lui non ci sarebbe stato e lo avrebbero visto gli altri, i presenti di quella sera. A premere il grilletto il giorno successivo fu un fantomatico razzista di nome James Earl Ray, scomparso anche lui per cause misteriose esattamente trenta anni più tardi alla morte di King. Ray si era sempre dichiarato innocente.
La dinamica di come si svolsero i fatti è abbastanza chiara anche a distanza di 55 anni. Tutto avvenne quando King si affacciò dal balcone che fungeva da passerella per raggiungere le camere del motel nel quale alloggiava in gran segreto. La sua era la numero 306 del Lorraine Motel.