Riconosciuto come un ‘fauve’ quindi, come un espressionista, questo artista soddisfa davvero le ragioni ‘segniche’ della pittura o non si rivela, piuttosto un ‘simbolista’ in libera uscita?

Siamo consapevoli che toccare i ‘mostri sacri’ è piuttosto pericoloso; e sappiamo bene che Matisse è un ‘mostro sacro’. Noi, però, non intendiamo ‘attaccarlo’, anche perché la sua pittura è piacevole e seduttiva, ma vorremmo semplicemente suggerire di valutarlo per quello che egli, a nostro sommesso giudizio, effettivamente è: un simbolista che sa fare un uso innovativo e cantante del colore.

H. Matisse, La desserte, 1908

Nella ‘vulgata’ corrente che descrive la storia delle ‘avanguatdie storiche’, Matisse viene considerato un espressionista per aver fatto parte del gruppo dei Fauves, un gruppo, cui appartenevano anche Derain, de Vlaminck, Rouault, Dufy, e che proponeva una pittura indiscutibilmente vibratile e cromaticamente incline all’adozione di una profilatura timbrica, per gli accostamenti sbattuti di colore senza intermediazioni tonali.

Sono ragioni, queste, necessarie, ma, ci si può interrogare, anche sufficienti per poter attribuire ragionevolmente patenti di ‘espressionismo’, quando, poi, di fatto, la tenuta ‘contenutistica’ non si rivela profondamente incidente, e non è, soprattutto, sostenuta da una robustezza segnica e gestuale al di sopra di qualsiasi sospetto?

Queste considerazioni che si rivelano essere valide, in approfondimento d’acribia critica, nei confronti del ‘tasso di espressionismo’ da poter riconoscere agli stessi Fauves (ma, analogamente, saremmo tentati di dire anche per gli artisti del ‘Blaue Reiter’ – e qui chiamiamo evidentemente in causa Kandinskij, appartenuto appunto al ‘Blaue Reiter’, e che abbiamo già provveduto a difinire anch’egli, in fondo un ‘simbolista’, nel nostro contributo in queste stesse pagine, la settimana scorsa) queste considerazioni, dicevamo, impongono di osservare con grande prudenza valutativa la sensibilità specifica dell’impegno creativo di Matisse non per disconoscerne la pregnanza della sua figura d’artista, ma per ricondurne, piuttosto, la profilatura in un ambito di perimetrazione – chiamiamola, per brevità ‘stilistica’ – forse più consona alla sua consistenza identitaria propriamente simbolistica.

Entro tale configurazione d’ambito, Matisse sembra allinearsi, nel corso della sua carriera, agli esiti propositivi del linguaggio figurativo, che fu quello della stagione fin de siècle, di cui il Nostro riprende il grafismo spigliato e le campiture cromatiche che garantisono gli equilibri delle forme come l’artista dimostra di saper fare nella prova magistrale de La danse, del 1909.

I colori, senza mediazione tonale, definiscono, infatti le forme ed azzerano la necessità disegnativa che emerge quasi di soppiatto per l’accostamento delle pezzature di colore. Tutto questo è molto affine alle logiche espressionistiche, ma non ne definisce l’inequivocabile profilatura, soprattutto perché la consistenza timbrica, che abbiamo doverosamente messo in evidenza, non è tale da surrogare la carenza ‘segnica’ e, derivativamente, la più debole incidenza ‘contenutistica’.

Tutto questo manifestamente avveniva unitamente – e forse come effetto concomitante – con l’affermarsi della deriva di una sensibilità spiritualistica di marca sottilmente iniziatica quale poteva ispirare un Gustave Moreau, e tutto ciò non può autorizzare ad altro che ad una valutazione, per quella di Matisse, di una pittura godibile e frusciante che avrebbe ben potuto interpretare le cadenze logiche di quella sensibilità tutta francese che vorremmo immaginare pencolante tra Parigi e la Costa Azzurra, o, se si vuole, tra una umoralità moderatamente gauchiste ed un pragmatismo empirico.

H. Matisse, La Danse, 1909

In proposito, vorremmo mettere in rilievo, nello specifico, la condizione non di consenso politico, ma soprattutto di debolezza umana, che ispirò le vite quanti, ob torto collo, furono costretti ad inchinarsi alle ‘logiche’ di Vichy, e che, con grande sensibilità filmica, seppe descrivere Louis Malle in Lacombe Lucien, uno splendido film del 1974, che anticipava – ma questo è altro discorso – il suo capolavoro di Milou en Mai del ’90, altro film che, descrivendo ben diverso contesto, convergeva, però, sul tema della insipienza e debolezza della coscienza valutativa personale di fronte alla necessità che la storia talvolta richiede di dare risposte di netta ed indiscutibile vivezza morale.

E. L. Kirchner, Manifesto per la Brücke

Ritornando a Matisse, non può non osservarsi che tutto il suo percorso creativo non è assimilabile a quello, ad esempio, degli artisti della ‘Brücke’, che fornirono una  effettiva risposta artistica di fiera affermazione di indirizzo ‘espressionistico’, modulandosi, piuttosto, la pittura del Nostro verso l’obiettivo dell’ottenimento di ciò che vorremmo definire una mobilità cromatica molto accattivante e prestante nelle sue ragioni formali.

H. Matisse, La Cappella di Vence

Abbiamo citato La danse di Matisse, ma è solo un esempio, all’interno di tutta la produzione di questo artista, che troverà il suo compimento, in limine vitae, nell’impresa della Cappella di Vence, dove l’empito ‘simbolistico’ sublima, nella esplicitazione del tema religioso, l’esaltazione delle sue opportunità figurative, manifestandosi in un vero e proprio trionfo della luce, che per l’artista assume il significato di un’apertura di orizzonte verso una ulteriorità spirituale che ben definisce e completa e manifestamente esplicita quel suo indirizzo che noi definiamo propriamente dipendente da una ‘visione’ simbolistica identificabile se non come préalable ‘stilistico’, certamente come insorgenza psicologica ‘categoriale’.

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