La pittura del primo ‘900 sviluppa – tra le altre cose – anche una concezione di ‘realismo’ che propone l’esaltazione di un modello creativo curiosamente omologo negli aspetti dell’arte e profondamente diverso, però, negli intendimenti ideologici dei ‘sistemi’ politici cui variamente si adatta. Un autore emblematico, Albin Egger-Lienz ed un rapido affaccio su una inquietante temperie

Nel contesto della pittura europea – e non solo – dello scorcio d’anni che sono quelli che si dispongono a cavallo tra fine ‘800 ed inizio del ‘900, si manifesta non soltanto il fenomeno delle cosiddette ‘Avanguardie Storiche’, ma anche quello di una pittura di carattere fortemente ‘simbolistico’ che si affianca agli esiti di una concezione veristico-realistico-naturalista che aveva trovato i suoi fasti più significativi entro tutto lo sviluppo del secolo XIX.

Proprio all’interno di quest’ultima temperie che abbiamo definito ‘veristico-realistico-naturalista’, e che è quella che assume il rapporto con la realtà fenomenica come la condizione nodale che giustifica il proprio dispositivo organizzativo e propositivo dell’immagine, si profila la necessità ineludibile di procedere alla riformulazione del progetto e del modo di concepire la ricerca artistica, dal momento che l’introduzione della fotografia è venuta a sconvolgere gli assetti tradizionali di una produzione di immagini che, da sempre, si proponevano vocate a documentare pedissequamente la realtà delle cose.

Tra le varie declinazioni che saprà assumere la pratica di una pittura ispirata al ‘realismo’, ovverossia alla definizione di una immagine artistica non rinunciataria sul piano della proposta raffigurativa della consistenza delle cose, di una pittura che – vogliamo dire, in particolare – sa fare a meno di slittare in formulazioni di accomodato ‘simbolismo’, tra tutte queste cose, dicevamo, si fa strada una manifestazione creativa che guarda a ciò che vorremmo definire la ‘datità’ empirica dell’oggetto, un oggetto preso in esame nella cruda essenzialità del suo assetto, quasi spogliato di ogni sua relazione contestuale e rappresentato come all’interno di una sorta di ‘bolla’ ideale. 

È questo un modo di realizzare una pittura che può essere considerata fuori del tempo, avvolta in una sorta di aura fantastica, come in un pensiero sospeso e vagante: non a caso, tale pittura sarà anche definita del ‘Realismo Magico’ e troverà adesioni significative principalmente in Italia e in Germania, affiancandosi alle modalità, invece, più corrusche e stridenti di adesione alla realtà che saranno quelle dei modi abbruciati e violenti – tutt’altro, quindi, che ‘magici’ – della declinazione espressionistica.

E. Hopper, Da sola, 1927

Ma, tra questa ‘espressionistica’ e quella ‘magico-realista’, si colloca anche ‘un’altra’ pittura, una pittura, per così dire, ‘intermedia’, una pittura, priva di una definizione specifica, che curiosamente viene fatta oggetto di interesse da parte del potere, trovando essa opportunità di accoglienza come occasione di specchiamento di numerose determinazioni di Weltanschauung politica, fino a poter essere trasversalmente disponibile a farsi interprete del ‘liberalismo’ statunitense, delle prospettive socialiste sovietiche e addirittura delle visioni proprie del progetto di società che va preconizzando la linea di pensiero nazional-socialista.

A. Deineka, Difesa di Pietrogrado, 1928

I nomi dei corifei di questi indirizzi sono presto fatti: Edward Hopper, Alexandr Deineka, Adolf Ziegler. In Italia potremmo pensare a Casorati, a Liberatore, a Galante, ma le posizioni degli italiani sono solo parzialmente rientranti in questa prospettiva di piano che andiamo tracciando.

Epperò non è su tutti questi artisti che intendiamo, comunque, qui partitamente soffermarci, ma su un’altra personalità, di cultura decisamente mitteleuropea, Albin Egger-Lienz, che, in qualche misura, riunisce in sé la sintesi vitale di questa temperie che andiamo descrivendo.

La sua pittura è larga e convincente ed egli trae partito dalla lezione della grande pittura tedesca dell’Ottocento – da Liebermann, in particolare – vorremmo suggerire, secondo il nostro punto di vista, e dalle sue compiute e magistrali orchestrazioni compositive sobrie, mai retoriche e monumentalistiche ma, indiscutibilmente, grandiose.

La pittura di Egger-Lienz è una pittura carica di umanità, non c’è in lui né la retorica ‘nazista’ di Ziegler, né la passione politica e la carica partecipativa ‘sovietica’ di Deineka, né si affaccia lo sperdimento della solitudine ‘liberista’ americana alla quale Hopper vede inevitabilmente condannato l’individuo atomizzato di una società ispirata unicamente dal profitto economico.

A. Ziegler, I quattro elementi, 1937

Egger-Lienz è un figlio del clima ‘secessionistico’ – si potrebbe argomentare più da quello di Monaco che non di Vienna, ma questo, allo stato, può apparire solo un dettaglio – un clima secessionistico depurato, però, comunque (e questo giova sottolinearlo) dei suoi ultimi esiti sottilmente ‘simbolistici’.

E, così, il Nostro sa fiondarsi nel pieno della lettura fenomenologica di un esistente che non sembra promettere nulla di buono al di là dei trionfalismi e delle retoriche che i regimi politici di diversa ispirazione ideologica, che cavalcano l’onda della modernizzazione, intendono proporre come icona dei propri programmi.

Egger-Lienz, senza compiere una scelta avvertitamente e compiutamente espressionistica – un po’ come avveniva in Liebermann che abbiamo precedentemente invocato – descrive un mondo che è così come intende apparire, un mondo squarciato dalla guerra, ma che vorrebbe essere anche promettente e fiducioso nella palingenesi tecnologica che sembra doversi annunciare all’orizzonte del tempo.

Potremmo tentare di fornire una sintesi di questa personalità di artista osservando come in lui si addensi una inquietudine, quella che costituisce l’altra faccia – quella non detta e non esposta – degli autori che gli si apparentano stilisticamente e che pure si propongono, individualmente, come profeti visuali di ben differenziate prospettive d’indirizzo politico ed ideologico.

A. Egger-Lienz, I Falciatori
A. Egger-Lienz, Autoritratto, 1926

A. Egger-Lienz, Ragazzo, 1923

Egger-Lienz appare solo, non racconta la solitudine delle metropoli americane come fa Hopper, ma la sua solitudine personale. Non c’è, inoltre, nella sua opera, la grandezza eroica di sentirsi parte di un grande progetto riformatore, come avviene in Deineka, né infine nel Nostro fa capolino l’algida ed asciutta apparente asetticità di una coscienza che si presume perfetta ed inarrivabile nei contenuti della sua millantata superiorità culturale e di razza, come si profila nel ragionamento artistico di Ziegler.

Egger-Lienz sembra essere addirittura spaesato e smarrito, avvertendo, forse, su di sé, profeticamente, ribadiamo, l’addensarsi di quelle nubi tempestose che porteranno alla tragedia l’Europa ed il mondo. Ma lui, nato nel 1868 e morto nel 1926, queste cose potrà solo intuirle ed annunciarle con l’arte.

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