Poco più di sessant’anni fa, nel 1961, un mostra celebrava i fasti di due importanti protagonisti dell’800 non solo napoletano, ma europeo: Domenico Morelli e Filippo Palizzi

Nella prospettiva storiografica di più corsiva e superficiale valutazione delle vicende artistiche dell”800 napoletano questo secolo dell’arte partenopea viene considerato come il secolo della ‘Scuola di Posillipo’ ed i più significativi esponenti di tale ‘scuola’, come Pitloo o Giacinto Gigante, vengono apprezzati come i protagonisti della scena ottocentesca.

Di fatto, anche se la temperie ‘posillipista’ (che ebbe il suo acme nei primi decenni del secolo) lascia avvertire l’onda lunga della sua azione ancora per molto tempo lungo tutto il prosieguo del secolo, vi furono anche altri indirizzi creativi che distinsero tale periodo.

Ricorderemo almeno le principali correnti che furono quelle dell’Accademismo neoclassicistico (che è cosa diversa dalla stagione propriamente neoclassica), la cosiddetta ‘Pittura di Storia’, la ‘Scuola di Resina’, il ‘Verismo’, la  stagione dei decenni conclusivi, al cui interno, peraltro, si affacceranno non solo varie declinazioni di vocazione ‘simbolistica’ delle atmosfere cosiddette ‘fin de siècle’, ma anche i contributi molto peculiari di alcuni ambiti particolari di ciò che potremmo definire come un più ampio contesto partenopeo caratterizzato, tra le altre cose di valore, dalla azione esercitata dai cosiddetti ‘Pittori Costaioli’, che animarono la ricerca artistica in Costiera amalfitana spingendosi con la loro azione fin entro i primi del ‘900.

Qui vorremmo zoomare, però, su due personalità in particolare, Domenico Morelli e Filippo Palizzi, traendo partito dal ricordo di una mostra, nel 1961, che volle mettere in evidenza il ruolo di grande rilievo di questi due artisti che possono essere giudicati senz’altro i protagonisti delle vicende napoletane dell’800 maturo.

Il primo dei due, il Morelli, è un artista di netta formazione accademica, che saprà concepire il progetto di non lasciare arenare nelle specificità di una mera sensibilità classicisica le sue doti di artista capace di grandi concezioni compositive. E proprio questo suo genio compositivo egli lo metterà a disposizione, piuttosto che di una ideazione di temi mitologici, di una costruzione, invece, di impianti figurativi di narrazione storiografica, così da dar vita ad una corrente artistica specifica, la corrente della ‘Pittura di Storia’, che si proponeva come agile opportunità di riconduzione della pratica figurativa alla oggettività dell’esperienza di vita.

D. Morelli, Tasso legge il poema della Gerusalemme liberata ad Eleonora d’Este

Aveva il pregio, peraltro, tale pittura, di proporsi anche come una più sobria e matura opportunità d’intendimento della temperie romantica, intervenendo a moderarne gli slittamenti possibili in estenuate fibrillazioni di ordine sentimentalistico.

Più avanti negli anni, il Morelli saprà ancora distinguere nel segno della sobrietà la sua pittura, quando, ad esempio, non mancherà di fornire suggestive prestazioni creative nell’ambito di quella temperie cosiddetta ‘orientalista’, ma anche di stampo ‘neopompeiano’ che si propone come contraltare colto e significativo delle più estenuate significazioni ‘pompier’.

D. Morelli, Le tentazioni di Sant’Antonio

Gli autori che hanno successo internazionale sono, in questo caso, i Bouguereau, i  Cabanel, gli Alma-Tadema, ma Domenico Morelli non è da meno ed addita con sicurezza e padronanza di campo una prospettiva creativa in cui la centralità contenutistica non viene mai meno, sapendo dimostrare come anche il più marcato intendimento d’impianto virtuosistico debba sempre aver presente che l’ancoraggio realistico non è solo frutto di una puntuale osservanza di canoni prescrittivi, ma anche di attenta conoscenza delle vibrazioni vitali che consegna l’analisi realistica.

Abbiamo appena detto ‘realistica’ e tale aggettivazione merita subito d’essere posta a confronto con quella di ‘veristica’, che è rispondente più propriamente alla pittura dell’altro protagonista di questa stagione ottocentesca, Filippo Palizzi, che diverge decisamente dalla pratica creativa morelliana non certo sul piano dell’ancoraggio al rispetto della datità ‘oggettuale’ delle cose, ma sul piano dell’intendimento analitico che presiede la sua pittura di indagine sul dato di natura.

Veristica, quindi, può definirsi la pittura palizziana per il suo volgersi a cogliere l’attimo della vita della natura, indagata nelle sue creature più semplici: negli animali, ad esempio, dei quali l’artista descrive con appassionata solerzia le fattezze e la vita stessa, così da consentirci un affaccio su un mondo apparentemente lontano dalla grande storia, dalle cose che muovono il mondo, per condurci all’interno di una dimensione dimessa e feriale.

F. Palizzi, La pastorella

Morelli e Palizzi furono legati da un rapporto di reciproco rispetto, che non li distoglieva dai rispettivi convincimenti artistici e culturali, lasciando Morelli, quindi, tutto interno ad un mondo ufficiale e proteso verso il potere – nelle sue sfere anche politiche – e Palizzi, invece, intento ad una analisi molto particolare della vita e della quotidianità non indagate mai con accostamento pettegolo o vernacolare, ma sottilmente elegiaco sì, quasi a tradimento, potremmo anche dire, di quello spirito di ordine ‘positivistico’ che, in fondo, può essere considerato il motivo fondatore della sua pratica creativa, una pratica che sembra trovare specchiamento – sia pur con tutti i necessari ‘distinguo’ – nelle soluzioni figurative, ad esempio, di un Courbet, o, per gli aspetti più spiccatamente umanitaristici, nelle visioni di un Teofilo Patini.

D. Morelli, Gesù nel deserto

Due opere, in particolare, vorremmo qui proporre alla attenzione valutativa, suggerendone una fruizione che – proprio perché ‘incrociata’ – può rivelarsi,  apparentemente, fuori dagli schemi: due opere che si prestano ad essere lette  a chiasma, l’una di Morelli, il Gesù nel deserto, l’altra di Palizzi, Il diluvio universale.

Curiosamente, di queste due opere, la prima, quella del Morelli, ci presenta la figura di Gesù solitaria in un deserto che segna lo smarrimento e la desolazione del nulla, l’esatto opposto, insomma, della ricchezza esuberante delle ambientazioni tipiche delle opere di Morelli sempre frutto di attenta regia compositiva, mentre l’altra, quella di Palizzi, Il diluvio universale, ci presenta – come è proprio e distintivo dell’artista – un mondo degli animali e della natura, ma non colto nell’intimità colloquaiale e minuta, ma nella grandiosità di un evento che potremmo definire non soltanto ‘storico’, ma addirittura epocale.

F. Palizzi, Il diluvio universale

Avviene, insomma, in queste due opere – come ci piace sottolineare – che i due artisti sembrano scambiarsi ruoli e finalità, andando il Morelli a semplificare nella raffigurazione del Gesù nel deserto l’essenzialità di una forma ricondotta alla estrema sintesi compositiva e procedendo, invece, di contro, il Palizzi, ad esibirsi in una ricchezza straripante di forme e di accenti creativi che dicono di una esuberanza apparentemente distonica con il suo concentrato addensamento espressivo.

(Le foto che illustrano questo contributo di ricerca storica, che non ha finalità commerciali ma esclusivamente di orientamento critico, sono prelevate dalla Rete e da fonti di pubblico utilizzo)

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