Si fa presto a dire ‘Barocco’, parlando dell’arte del ‘600. A Napoli, poi, in particolare, si incrociano almeno tre correnti fondamentali: il Naturalismo, il Classicismo, il Barocco. Qui, però, parliamo proprio del Barocco.

Nel secolo del Seicento, a Napoli, fioriscono tre grandi indirizzi di creatività artistica, quello naturalistico, che ha il suo iniziatore in Caravaggio; quello classicistico, che ha il suo più importante esponente in Massimo Stanzione: quello barocco, che vede in Luca Giordano l’indiscusso protagonista.

Andiamo sostenendo da tempo – ed ultimamente anche in queste stesse pagine di ‘FreeTopix Magazine’ – che, probabilmente, alla radice di tutte queste cose (e, per quanto, forse anche preterintenzionalmente, per quanto attiene il suo specifico impegno creativo) può non essere irragionevole scorgere la figura di Fabrizio Santafede, un autore certamente portatore di ‘valori’ culturali valutabili ‘datati’, come quelli di una cultura tardomanieristica, di fatto, lo erano. Ma, occorre aggiungere, le sue cose erano anche profondamente feconde di opportunità germinative; e Santafede, infatti, si propone come matrice di tutti i principali indirizzi seicenteschi.

Analizziamo, in questo particolare intervento illustrativo storiografico che qui rendiamo, il panorama generale che si offre alla disamina della specifica stagione del Barocco napoletano in pittura.

Innanzitutto, osserveremo che la pittura napoletana barocca si differenzia dalla aerea e spericolata vibratilità delle prove decorative – ad esempio, a Roma – di Pietro da Cortona, del Pozzo o del Gaulli, proprio perché la temperie partenopea  suggerisce una sorta di continuità d’assetti compositivi con la logica di impianti tardomanieristici, che, pur impostati sul tema della ‘serpentina’ o dell’avvolgimento dei corpi, come avveniva, ad esempio, con l’Imparato, col Curia ecc., appare caratterizzata, comunque, da una compostezza di modi che contrasta vivamente con la cultura figurativa degli ‘sfondati’ decorativi romani.

La logica lanfranchiana è ciò che prevale, piuttosto, a Napoli, quasi in recupero di sensibilità correggesche (e ritorniamo, così, su Santafede); e produce risultati di sobria compostezza e di controllo degli assetti volumetrici e spaziali, anche quando, in fondo, si produce nella vaporosità formale di prove di grande dilatazione immaginativa, come avviene nella cupola della Cappella di San Gennaro nel Duomo di Napoli.

La storia stessa di questi affreschi januariani è una vicenda rocambolesca e dalle tinte piuttosto fosche, in cui si intrecciano oscure trame di intimidazioni ‘camorristiche’, di pressioni e di violenze che turbano l’esecuzione delle varie opere di decorazione della cappella, con l’alternarsi di numerose personalità (il Cavalier d’Arpino, Guido Reni, Battistello Caracciolo, Fabrizio Santafede) – alcune delle quali costrette addirittura a declinare l’incarico –  fin quando la grandiosa impresa viene portata a compimento dal Domenichino e dal Lanfranco.

Lanfranco (cupola) e il Domenichino (pennacchi) nella Cappella di San Gennaro del Duomo di Napoli

Il Lanfranco riconduce al Correggio, l’abbiamo già detto, ma anche altre componenti emiliane si renderanno apprezzabili – nella linea, almeno, della discendenza carraccesca di un ragionevole intendimento delle pratiche figurative seicentesche – e ciò avvalora ulteriormente la tesi della sobrietà d’impianto di ciò che si manifesta nei termini creativi del barocco napoletano.

La grande svolta di ampiezza straordinariamente fertile sul piano della originalità propositiva si manifesta, occorre necessariamente sottolineare, con la preminenza sulla scena artistica partenopea del genio del napoletano Luca Giordano, cosa che avviene, fondamentalmente, dopo la peste del ’56, quando, scomparsi i grandi protagonisti che avevano tenuto banco fino ad allora, si apre una nuova stagione in cui il Giordano, ma, con lui anche il calabrese Mattia Preti, sapranno additare fondamentali indirizzi di linea, mentre – ma non semplicemente ‘in panchina’ – scalda i muscoli il giovane Francesco Solimena in una fase di esordio, ad esempio, a San Giorgio a Salerno.

Luca Giordano a San Gregorio Armeno a Napoli

Il Giordano sarà un protagonista assoluto non solo della pittura napoletana, ma anche in Italia ed in Europa; e la sua pittura farà scuola a Napoli ed in tutto il Mezzogiorno ove saranno numerosissimi i suoi allievi, che porteranno a sviluppo ulteriore le tecniche creative introdotte dal maestro e che consistono ormai in una pittura di netti assetti volumetrici e di ariose compitazioni cromatiche.

Si distinguono, tra le altre, le personalità di Giuseppe Simonelli, cui il Giordano stesso lasciò il compito di completare alcuni suoi impegni di lavoro al momento della sua partenza per la Spagna, e poi altre figure come quelle di Gennaro Abbate (collaboratore dello stesso Simonelli), Matteo Simonelli (di cui non sappiamo se sia stato congiunto di Giuseppe), Giuseppe Trombadore, Luca Paciolla, Giovan Leonardo Pinto, Domenico Sorrentino ed altri.

F. Solimena a San Giorgio a Salerno

Tra gli altri artisti dipendenti dal Giordano, la fonte di Bernardo De Dominici cita ancora numerosi pittori, tra cui ricordiamo almeno Aniello Rossi, Filippo Ceppaluni, ed alcuni come Domenico Coscia, ad esempio, attivo anche in una specialità produttiva particolare, quella della pittura su vetro.

Mattia Preti a San Pietro a Maiella e a Porta San Gennaro a Napoli (dettagli)

Rimane aperto tutto il capitolo, poi, della pittura di Mattia Preti, che costituisce un ulteriore aspetto della pratica barocca, una pittura che si distingue per due peculiarità di specifico rilievo: una sensibilità cromatica cosiddetta ‘neoveneta’ ed una capacità di affondo disegnativo che qualifica una capacità di definizione del tratto notevolmente pronunciata e tale da lasciar chiamare in causa un riverbero ‘naturalistico’.

Le prove fornite dal Preti definiscono un ulteriore aspetto della sobrietà del Barocco napoletano, volgendone gli accenti in direzione, addirittura, di un intendimento compunto e severo, come è possibile verificare a San Pietro a Maiella o negli stessi affreschi che decoravano le ‘porte’ della città di Napoli e che gli furono commissionati a titolo di ex-voto per lo scampato pericolo della peste del ’56.

Almeno uno di questi affreschi tuttora sopravvive, per quanto un po’ malandato, sulla Porta di San Gennaro.

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