Il suo percorso creativo a Napoli nel corso di tutto il secondo cinquantennio del ‘900 e degli anni che inaugurano il nuovo secolo del 2000

È dagli anni Cinquanta che la figura di Carmine Di Ruggiero si staglia nel contesto dell’arte contemporanea, provvedendo egli a segnare di un prestigio straordinario tutta la ‘scuola’ partenopea che, in un modo o nell’altro, in fondo, può ben dirsi dipendente dalla sua personalità.

Intendiamo dire, con questo, in particolare, che, al netto di esemplarismi propriamente stilistici o ‘di scuola’, ciò che segna effettivamente le ragioni del riconosciuto protagonismo di Carmine Di Ruggiero è il ruolo che egli ha potuto ritagliarsi nel corso del tempo, scegliendo di essere una figura di riferimento per tutti: colleghi ed allievi, personalità del ‘sistema delle arti’, ma anche semplici estimatori e fruitori di fine intelligenza e gusto.

Se dovessimo poter immaginare di definire sul gradiente della profilatura storica la personalità di Di Ruggiero, associandola, ad esempio, a qualche grande protagonista delle passate glorie della ‘scuola’ napoletana, ci piacerebbe immaginare la sua figura un po’ come quella di Massimo Stanzione, essendo entrambi questi artisti distinti in modo significativo e dirimente da una peculiarità di non lieve spessore: la sobrietà.

Il ruolo svolto dallo Stanzione nella comunità artistica napoletana del ‘600, superbamente narrato nelle sue pagine dal De Dominici, è tanto simile a quello che definisce la collocazione di Di Ruggiero nel nostro presente: un padre nobile ed assennato, un punto di orientamento, la fonte del consiglio giusto ed appropriato.

Non a caso, così come abbiamo più volte riconosciuto di Emilio Notte – che fu maestro di Di Ruggiero, ed ebbe il doppio grande merito non solo di procedere a ‘svecchiare’ la cultura artistica napoletana già da quando, nel ’29, approdò nel contesto della Accademia napoletana delle Belle Arti, ma anche quello di saper proporsi come formatore di nuove leve di artisti, educandone le coscienze, non meno che le sensibilità artistiche – così anche di Di Ruggiero si può dire altrettanto ed in entrambe le prospettive: quella dell’innovazione creativa e quella della capacità formativa di giovani leve di artisti.

Documentare come si articola tutto il percorso creativo che segna e definisce la carriera di questo artista è compito abbastanza complesso e noi stessi, così come altri studiosi, ci siamo cimentati in tale impresa nel contesto di alcuni interventi di studio sia monografico che di quadro, e possiamo quindi argomentare che quello stesso giudizio di sobrietà che tanto bene s’attaglia alla sua persona, non discorda dalla profilatura d’insieme che costituisce l’insieme aggregato della sua produzione creativa.

In particolare, muovendoci nella pienezza dello scorrere del tempo, potremo osservare come la personalità di Di Ruggiero prenda a distinguersi con precoce sensibilità dalla figura del suo maestro Emilio Notte, non per differenziarsi da una  insopportabile dipendenza, né per respingerne il portato dell’insegnamento e della qualità esemplaristica, ma per rispondere ad un’esigenza di  autonomia propositiva, al cui interno l’allievo avrebbe potuto mostrare, anzi, quanto profondamente significativo abbia potuto essere l’insegnamento della sua guida per potergli garantire di guadagnarsi una autonomia di spessore creativo e di acutezza espressiva.

Tale aggettivo di ‘espressiva’, riferito alla pienezza dell’autonomia di Di Ruggiero vale a sottolinearne una caratteristica distintiva che si sarebbe mantenuta costante nel tempo: quella, in particolare che consente di definire il suo ‘segno’ come una impressa incisiva che scava profondamente nella materia, non per abbandonarsi ad una foga aniconica totalmente svincolata dall’esperienza del reale fenomenico, ma per rendere, piuttosto, questa importante esperienza di destrutturazione dell’immagine del reale una opportunità di lettura trasversale e sghemba delle cose, al cui interno è possibile osservare come vadano ad annidarsi ed a prendere posto le esperienze umane, molto spesso vissute come stigmate profonde lasciate dal trascorrere del tempo sui corpi e sulle cose.

È questo il significato profondo che abbraccia una produzione creativa in cui, ad esempio, l’immagine di ‘Cristo’ si fa icona della umanità dolente, ed in cui l’immagine della ‘città’ non ha più nulla della carica di documentazione storicamente contingente, ma si presenta, piuttosto, come lacerto ‘combusto’ di un evento apparentemente inconcepibile alla prefigurazione evenienziale.

Ma, non meno carica di vitalità vibratamente esaltata nelle forme di una dinamica incalzante di segni appare anche la stessa pratica più asciuttamente astrattista del Nostro, quella pratica che ne distingue una importante stagione di vita artistica, quando l’ardore della materia che andava alla ricerca del suo più deciso allontanamento da qualsiasi possibile referenza col dato epifenomenologico, scopre nel rigore degli assemblaggi geometrici la opportunità di andare a costruire quella profilatura epistemologica che avrebbe potuto garantire alla sua ricerca di farsi rivelativa di una chiave di interpretazione del nostro mondo e della nostra storia.

Carmine Di Ruggiero ha compiuto – tra l’altro – una scelta di vita coraggiosa e dirimente: quella di rimanere a Napoli, fino a diventarne, oggi, icona riconosciuta e preziosa. Di questo la città deve essergli grata, osservando che questa sua scelta, al di là delle vicende della vita, testimonia di un legame forte e robusto che è valso, peraltro, anche come fertile alimento della vena creativa.

Siamo ben consapevoli di aver ‘narrato’ relativamente poco dell’opera di questo straordinario maestro, ma il nostro intendimento era quello innanzitutto di fornirne una sorta di ‘ritratto morale’, qualcosa, insomma, che potesse valere a consentire un accostamento più intimo e partecipato alla figura di Carmine Di Ruggiero, cogliendone il tratto umano, la sensibilità partecipativa e la raffinatezza di un tocco artistico capace di trasfigurare al semplice contatto, quello, magari, coi polpastrelli stessi delle dita, una materia inerte, il pigmento, fino a renderlo energia densa di vitalità.

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