Un gruppo di artisti, in Francia, durante il periodo di occupazione nazista, sceglie di farsi riconoscere come ‘giovani artisti della tradizione francese’. Sono, in realtà dei coraggiosi sperimentatori; ed il prodotto della loro ricerca sarà destinato a durare a lungo: fino ai nostri giorni.

C’è un motivo di fondo che occorre analizzare per comprendere perché un’esperienza creativa presieduta da una profilatura di caratura nettamente aniconica, presentata al pubblico, a Parigi, nel 1941, in una mostra dal titolo di  ‘Les Jeunes peintres de la tradition française’, sia durata a lungo nel tempo presentandosi  ancor oggi, tutto sommato, ragionevolmente attuale.

E tale motivo è da individuare nella capacità di cui alcuni artisti seppero dar prova ottant’anni fa (ed anche un po’ prima) di coniugazione di una pratica astrattiva con una sensibilità propriamente materica.

Di fatto, questa vicenda creativa potrebbe essere definita, in formula, come una prospettiva ‘astratto-informale’, formula, che noi stessi abbiamo adottato, peraltro, come titolo specifico, in sede di un impegno di ampia restituzione storiografica  culminato in un volume pubblicato nel 2015.

E tale definizione di ‘astratto-informale’, a nostro giudizio, può valere molto bene, infatti, a definire un campo d’azione che, differenziandosi dalla pura Astrazione geometrica così come dalle pratiche propriamente informali o anche nucleari, riesce a farsi sintesi efficace di queste rispettive modalità d’intervento creativo.

Gli artisti che diedero vita a questa particolare e vivacissima stagione culturale proponevano la coniugazione di esigenza ordinamentale e dispositiva con esuberanza di passione e di gesto; e tale formula sarebbe stata destinata a durare a lungo – pur con molti aggiustamenti e correzioni di tiro durante il tempo – praticamente fino ai nostri giorni.

Ecco, allora, profilarsi la messa in campo di una pratica creativa che individua la necessità di non abbandonare alla profluvie di una gestualità inconsulta il prodursi della costruzione dell’immagine, ma di istradarne l’intima vocazione eslege entro una sorta di perimetrazione normativa al cui interno il governo di una sensibilità astrattiva di ispirazione astratto-geometrica potesse garantire la tenuta organica di ciò che potremmo anche definire come un vero e proprio telaio compositivo.

Sul fronte specifico della logica integrativa di aspetti di cultura materica con ansiti – oltre che di cultura astrattiva – anche di natura figurativa, surreale o cubista, se ne sarebbero viste esemplificazioni significative non solo nel contesto europeo (un’altra  mostra importante fu quella che si tenne a Bruxelles nel 1941) ma anche in Italia, ove fioriscono, nell’immediato secondo dopoguerra, alcuni gruppi, come quello degli ‘Otto pittori’ guidato da Venturi, alla ‘Biennale’ del ’52 o come quello degli ‘Ultimi naturalisti’ ispirato da Arcangeli (1954), al netto di qualche sperimentatore più o meno isolato, come il napoletano d’adozione Carlo Montarsolo.

Né dimenticheremo le esperienze fondamentali che furono vissute da ‘Forma 1’ o dal ‘Gruppo Origine’, avendo conto, però, che l’esposizione a Parigi del ’41, dei ‘Jeunes peintres de la tradition française’ rimane l’episodio più significativo di una aggregazione artistica che sceglie di fare di ciò che era oggettivamente la ricerca più innovativa possibile (in quel momento storico) anche un’occasione di riscatto ideale e sociale.

Additare i nomi degli artisti più significativi significa dare ragione di personalità come almeno quelle di Pierre Tal Coat, Raoul Ubac, Jean Bazaine, Jean Le Moal, Alfred Manessier, osservando che nel contesto della loro ricerca si afferma la vivacità propositiva di una concezione che è di impianto certamente ‘astratto-informale’, ma non senza presentare anche qualche sensibilità post-cubista e, talvolta, un lascito di cultura di vibratile carica espressionistica.

Tutto ciò induce a citare anche altri nomi che arricchiscono il panorama di questi anni, come quelli di Roger Bissière, di Maurice Estève, di Elie Borgrave, di Jean Osterlink, di Serge Poliakoff, di Nicolas de Staël, di Henryk Stazewski, e, poi ancora, protagonisti in Belgio della già citata mostra del ’41 a Bruxelles, di Anne Bonnet, di Louis van Lint, di Gaston Bertrand,

Dalla mostra parigina del ’41, che, di fatto, nel titolo di ‘Jeunes peintres de la tradition française’ consentiva agli artisti di dissimulare, sotto le mentite spoglie dell’appello alla ‘tradition’, agli occhi dei Nazisti, la vera natura di ispirazione sperimentativa della loro ricerca (che sarebbe dovuta rientrare, invece, nei canoni di giudizio negativo della ‘Entertete Kunst’ – l’arte degenerata) da questa mostra, dicevamo, nasce l’ansito rinnovatore che avrebbe consentito, a fine decennio, la fioritura della grande temperie ‘informale’ che si afferma nel secondo dopoguerra.

I ‘Jeunes peintres de la tradition française’ inaugurano, quindi, una stagione che, coniugando sensibilità segnica eslege e prescrizione normativa astrattiva, si sarebbe posta come profilatura di ricerca, a ben vedere, solo apparentemente compromissoria rispetto alle scelte di marca nettamente ‘materica’ della cultura ‘informale’, come di quelle di libera esondazione del ‘Nucleare’ o del ‘Dripping’ e, non meno, di quelle dello stesso ‘Espressionismo Astratto’ o dell’Action Painting’.

Eppure, a ben riflettere, tutte queste cose, che abbiamo appena additato e che animeranno pienamente il decennio degli anni ’50 e ’60, trovano una loro ragion d’essere proprio nelle ricerche di grande generosità creativa dei ‘Jeunes peintres de la tradition française’, così come di altri sperimentatori che, in altri contesti principalmente europei, avevano dato vita, tra fine anni ’30 e decennio dei ’40, ad analoghe, coraggiose sperimentazioni di cui, a voler cercare qualche prodromo producente, è possibile trovare fruttuosa anticipazione, ad esempio, nell’opera di qualche ricercatore di fine vena premonitiva come, ad esempio, negli anni ’20, il caprese Raffaele Castello o il portoghese Amadeo De Souza Cardoso, che dava corpo, già verso la fine del decennio dei ’10, a delle sperimentazioni che coniugavano l’istanza della liberazione segnica con quella propriamente normativa dell’assetto compositivo geometrico.

Posizione interessantissima, peraltro, quella di Cardoso, dal momento che in anni molto alti (lui morirà di ‘Spagnola’ nel 1918) aveva saputo comprendere con largo anticipo quanta fertilità potesse avere la sintesi che egli andava propugnando di fattori di natura ‘scompositiva’ cubista, con fattori di natura ‘analitica’ astrattista, andando a trattare il tutto con una profondità d’affondo segnico presieduta da una caratura materica di deciso spessore.  

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