Continua la nostra analisi nel mondo dell’arte ‘Chiarista’

Per effetto di tali considerazioni appare evidente, quindi, che non potremo giudicare sufficiente la ‘sola’ condizione figurativa formale di mera lattiginosità di vapori d’atmosfera per ritenere pienamente soddisfatte le condizioni necessarie e sufficienti per la qualificazione ‘chiarista’ di un intervento di proposta creativa, ma occorrerà poter leggere all’interno delle profilature esistenziali degli artisti la vibrazione di ansito morale che ha potuto consentire loro di osservare la datità circostante delle cose con quell’occhio certamente disincantato, ma non disavvertito, che caratterizza l’empito propriamente ‘chiarista’.

Queste nostre analisi riposano sull’assunto storico-valutativo che il dettato di Persico si costituisce in additamento di un ‘viatico’ capace di rendere un semplice aggregato di artisti un vero e proprio ‘movimento’ in grado di suggerire una proposta ampiamente dilatata.

Si accredita, quindi, con sostenibili argomentazioni, la praticabilità critica di un ampliamento della temperie ‘chiarista’, che può vedere estendersi la cerchia dei suoi artisti25, dilatandosi, così, notevolmente la composizione a cinque (Del Bon, Lilloni, De Rocchi, De Amicis e Spilimbergo) in una più ampia compagine.

Ė necessario, peraltro, ribadire il dato che la sensibilità luministica vocata ai toni chiari non costituisce una pratica oggettivamente limitata e ambientalmente circoscritta (l’ammonizione di Giolli!) e, quindi essa non può essere considerata fattore bastevole per un accreditamento ‘chiarista’. Ed occorre essere consapevoli, pertanto, che alla delineazione di una proposta pittorica ‘d’atmosfera’ le logiche ‘chiariste’ impongono che si accompagni anche una prospettiva di ciò che abbiamo tentato definire ‘mitezza’ psicologica e morale, che dovrà intendersi, ovviamente, non come manifestazione di cedevolezza rinunciataria, ma come voce ferma e accorata che, scegliendo la pacatezza dei toni, sappia rendere ancor più incisivo il contenuto di pensiero che la ispira.

Ecco, quindi, che non è propriamente d’’intimismo’ che si veste la prati- ca ‘chiarista’, ma di ‘intimità’; e, d’altronde, sostenere che alla prospettiva ‘chiarista’ venga riconosciuta una peculiarità di vocazione alla descrizione di una ‘intimità’ che non si piega alla deriva ‘intimistica’ significa voler affermare esattamente questo: che, cioè, ciò che il ‘Chiarismo’ sviluppa è una scelta etica ed esistenziale e non un atteggiamento di decadentismo snobistico ed affettato. Se non ci fossero tali condizioni, peraltro, sarebbe stato ben difficile per Persico immaginare di poter lavorare sulla tempe- rie creativa milanese, andando a costruirne una profilatura epistemologica leggibile, come noi suggeriamo, in termini di ‘lirismo critico’.

da Angelo Del Bon, Francesco De Rocchi, Cristoforo De Amicis, Umber- to Lilloni e Adriano di Spilimbergo; ed occorre subito dire che, per quanto questo nucleo non possa definirsi amalgamato nell’ordine di una rispondenza interfacciabile delle rispettive esperienze creative, non può nemmeno considerarsi come una congerie osservabile, disiecta membra, in una prospettiva di raccolta giustificabile unicamente nel tema della scelta luministica. D’altronde, a guardar bene, nemmeno la scelta luministica potrebbe costituire fattore omologante di una condivisione produttiva, giacché è ampio il divario, ad esempio, tra la avvertita compostezza dei modi di De Rocchi e la sensibilità, per così dire, alchemica di Spilimbergo, in cui trasudano atmosfere antiche di ancestralità medievali nutrite di vapori che vorremmo definire alpini, piuttosto che padani o addirittura lagunari. L’analisi dell’opera di Umberto Lilloni ci trasporta, d’impeto, nel pieno

di una visione di sognante candore, ove la misura delle cose si sfibra in una luminosità che trova un suo specchiamento nella sensibilità di Del Bon, molto legato a Lilloni, ma con la differenza che nel confronto tra i due, Del Bon appare molto più smaliziato e disponibile ad una lettura dell’esistente fenomenico in termini di aperto e consapevole disincanto.

La prospettiva del disincanto può anche essere quella giusta per aver conto dell’indirizzo di pensiero che presiede l’attività di questi artisti, che avvertono l’esigenza morale di dar corpo ad una significazione figurativa che non si appiattisca sulle logiche di ‘Novecento’, assumendo la consistenza lanosa delle atmosfere luminosamente flautate come l’alveo entro cui possono trovare giustificazione logica e compimento oggettivo gli an- siti di un artista che non trova altra possibilità che il ripiegamento su se stesso, come antemurale di un coinvolgimento in una temperie che avverte estranea e lontana dalla propria Weltanschauung.

C’è anche chi, come De Rocchi, ad esempio, nel dare corpo ad una manifestazione di dissolvenza luministica, sceglie, però, di non indebolire la tenuta corposa del segno, andando a praticare, alla bisogna, una sorta di recupero di quelle forze primigenie che la pittura antica – soprattutto nella transizione tre-quattrocentesca e nella rinuncia in particolare delle preziosità tardogotiche – aveva saputo incorporare nel tratto di una misura figurativa che non cedeva affatto alla evanescenza, nel momento in cui sceglieva di presentarsi scarna ed essenziale, cromaticamente avvolta in una consistenza di impercettibili afflati atmosferici.

E se, potremo osservare, in De Rocchi, affermarsi una tenuta segni- ca che non esclude l’abbrivio tonale, che si esalta nella tenuta massiva di una sorta di matericità sabbiosa, non meno convincentemente avviene nella pittura di Cristoforo De Amicis, in cui, però, ciò che abbiamo appena definito ‘tenuta massiva’ non trova il suo abbrivio in una ‘matericità sabbiosa’, ma in una ‘matericità luministica’, costituita di accenni di bagliori e di suggerimenti di lucentezze smaltate compressivamente ridotte in una misura di albore opalescente.

Sullo sfondo di queste cose, in tralice, potremmo dire, c’è la pittura lombarda dell’’800 maturo, quella fatta non solo delle consistenze corpo- se di Gola, che costituisce il retroterra eidetico della temperie ‘chiarista’, ma anche delle sensibilità psicologiche, più che atmosferiche, di quel tratto di strada creativa che rende possibile accorpare in una prospettiva di ragionevole intrinsichezza Cremona con Ranzoni, almeno nel segno della coscienza di una crisi romantica che ha trovato come sbocco esclamativo lo stupore trasognato della ritrattistica di Cremona, o le allucinazioni del Piccio o le frammentazioni di Ranzoni.

D’altronde, questo legame, forse anche preterintenzionale, alla tradi- zione lombarda ottocentesca e ad un certo clima di ‘Scapigliatura’ passato attraverso il filtro di un ammorbidimento sentimentale e, quindi, di un privilegiamento della caratura ‘tonale’, può rendersi tanto più facilmente riscontrabile nell’opera del gruppo dei ‘Chiaristi’ milanesi se ne osserviamo le compitazioni offerte nella pratica della pittura di figura e di ritratto, piuttosto che in quella propriamente d’atmosfera e paesaggistica.

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