Qualche riflessione sulle dinamiche artistiche – nei prodromi e nei seguiti – della stagione degli anni Cinquanta in due capitali dell’arte italiana: Napoli e Roma

L’Arte non è mai stata un mero oggetto di disponibilità culturale al servizio del potere e, anche quando ha svolto il ruolo di ‘instrumentum regni’ lo ha fatto riservandosi, comunque, un suo spazio di libertà morale ed intellettuale.

Certo, tutto ciò non può impedire di riconoscere, talvolta, in molti artisti, un atteggiamento di prona acquiescenza nei confronti del potere, ma, comunque, nel suo insieme, l’arte va considerata come una voce di libertà.

Possiamo prendere in considerazione alcuni momenti della storia in cui il potere (politico o religioso, poco cambia) ha preteso di dettare l’indirizzo artistico, immaginando di poterne addirittura regolare l’abbrivio stilistico, ma vi sono anche momenti significativi in cui l’arte ha saputo rivendicare tutta la sua libertà, lasciando affermare non solo una propria autonomia morale ed intellettuale, ma addirittura avanzando un proprio indirizzo di Weltanschauung.

Uno di questi momenti salienti è senz’altro quello che si profila negli anni dell’immediato secondo dopoguerra, quando – e qui lanciamo un cono di luce sulla realtà ambientale di due importanti città italiane come Napoli e Roma – si lasciano avvertire particolarmente significative le proposte creative che nascono come manifestazione di un dibattito culturale che indirizza la propria azione a stimolare risposte producenti dal mondo politico, richiedendo spesso, soprattutto alla sinistra, di dimostrarsi all’altezza del ruolo storico, per  cui sarebbe chiamata a dare risposte producenti e convincenti col proprio indirizzo di progresso sociale.

Si era conclusa, con la fine del secondo conflitto mondiale, l’esperienza futurista e si era conclusa anche quella del movimento sarfattiano e, più in generale, dell’arte di regime ispirata ai canoni del movimento di ‘Novecento’.

A Napoli, il luogo principe, in cui si propongono gli ansiti della più vibratile vivacità creativa – o, almeno quello, forse, più  significativo – è lo spazio del ‘Blu di Prussia’, ambiente  espositivo e di dibattito; mentre, a Roma, sono principalmente i caffé i punti ove la vita artistica matura le ragioni di un grande confronto di idee: dal Caffé Greco a Rosati, in un turbinio di suggerimenti e proposte.

Il dibattito è particolarmente vivace e si anima tra fautori delle dinamiche cosiddette ‘astrattiste’ e, dall’altra parte, di quelle cosiddette ‘figurative’.

L’aggettivazione di ‘cosiddette’, da noi adoperata, ci sembra veramente pertinente ed opportuna per due buone ragioni: sia perché, ciò che viene definito ‘astrattismo’, astrattismo non è, trattandosi, piuttosto, di aniconismo; sia perché ciò che viene definito ‘figurazione’ in realtà è soltanto un irrinunciato richiamo nell’opera d’arte alla datità cosale primigenia di un modello oggettuale  cui l’artista intende riferire le ragioni compositive del proprio impegno creativo.

E tant’è che Arcangeli definirà propriamente ‘Ultimi naturalisti’, nel ‘54, una nidiata di artisti di caratura ‘informale’, cosi come, d’altronde, sia pure per ragioni di opportunismo politico, non avevano esitato, ma in questo caso ‘a contrariis’, a definirsi ‘Jeunes peintres de la tradition francaise’, a principio degli anni ’40, un gruppetto di artisti di vocazione ‘astratto-materica’ – che di ‘tradizionale’ non avevano proprio nulla – e che avevano l’istanza urgente, piuttosto, di dissimulare nei confronti dell’invasore nazista la propria consistenza creativa a tutti gli effetti rientrante, ahimé per loro, nei canoni dell’’Entartete Kunst’ e come tale, quindi, suscettibile delle azioni restrittive degli invasori tedeschi di Parigi.

C’è una consapevolezza politica, poi, occorre dire, nell’Italia di fine anni ’40 e di primi’ 50, una consapevolezza molto avvertita; e il dibattito nella sinistra è molto aperto; con gli ‘astrattisti’ di ‘Forma 1’, ad esempio, che non accettano il dirigismo della linea del Partito Comunista (ben esemplato nelle pagine di ‘Rinascita’) che addita la via ‘maestra’ di una figurazione di stampo socialista, forse zdanovianamente atteggiata, indicando, di contro, di non considerarsi meno progressisti, quelli di ‘Forma 1’, sol perché si affannano a privilegiare le ragioni di una cultura astrattista, variamente declinata nei modi, ad esempio, della Accardi o di Sanfilippo, mentre Capogrossi individua una cifra di grande mobilità esistenziale nell’invenzione di una carica modulare che egli lascia imporre come chiave disvelativa delle ragioni eidetiche del reale fenomenico.

Lo stesso Guttuso, che fornisce un grande contributo alla linea opposta, a quella, cioè, figurativa, non è disponibile ad una prona acquiescenza nei confronti del tradizionalismo figurativo (e non importa che fosse neoimpressionistico, baguttiano o tardosarfattiano) e si lancia, piuttosto a riformulare in modo assolutamente originale il punto di osservazione della realtà delle cose, giustificando e legittimando un generoso sforzo di ripensamento critico della società, quale è quello che si anima nella scia del ‘Fronte Nuovo delle Arti’ dai cui lombi si genera l’esperienza inedita della stagione ‘neorealista’, che non può essere ritenuta, in modo semplicisticamente limitativo, una ‘variazione sul tema’ del ‘Realismo Socialista’.

E se questa era, nelle grandi linee, la situazione romana, anche Napoli viveva l’analogo contrasto tra ‘astrattisti’ e ‘figurativi’, avendo conto di dover osservare qui, all’ombra del Vesuvio, il proporsi, in aggiunta, di una prospettiva integrativa dei rispettivi linguaggi, aniconico e figurativo, grazie ad una netta promessa di avvio di un’esperienza di sintesi materico-figurativa alla quale introduce l’opera di Raffaele Lippi.

Togliatti ci aveva provato a definirli ‘scarabocchi’ i prodotti della cultura artistica di sperimentazione; e il suo articolo di stroncatura delle ricerche aniconiche pubblicato nelle pagine di ‘Rinascita’ è un tipico esempio di pretesa dirigistica della cultura.

Sono momenti forti e si propone un braccio di ferro tra intellettuali (Vittorini) e le gerarchie del Partito Comunista (Alicata) che non sa risolversi ad assumere le ragioni di un protagonismo culturale come quelle proprie di una scelta inclusiva e producente.

Il PCI paga, di fatto, lo scotto di una soggiacenza culturale crociana che rimarrà a lungo come pesante eredità nella ‘sinistra’ italiana, protraendosi fino ai nostri giorni, ampiamente favorita dagli intendimenti – secondo noi, miopi – della dirigenza comunista e post-comunista soprattutto di area meridionale.

Ritorniamo al periodo dell’immediato dopoguerra: nascono in questo clima di fermentante vivacità intellettuale le ragioni di ciò che si affermerà, poi, più tardi di alcuni anni, con la ‘Scuola di Piazza del Popolo’ a Roma o con il ‘Gruppo 58’ a Napoli, ove una nuova generazione – pensiamo almeno alla personalità di Mario Persico nel capoluogo partenopeo  –  subentrando alla vecchia, erediterà un patrimonio morale di cui finirà col fare un uso probabilmente sbagliato sul piano metodologico, non riuscendo a mettere a fuoco tutte le opportunità di una linea di ricerca che aveva le sue radici nella straordinaria vivacità creativa che aveva animato le ragioni ‘nucleariste’ fiorite a Napoli entro il secondo lustro degli anni ‘40, con l’opera di Mario Colucci, di Libero Galdo, di Elena Cappiello e di alcune originali esperienze di Ciccio Capasso.

Al ‘Gruppo 58’ va, comunque, riconosciuto di aver saputo cavalcare l’onda di un’istanza di rinnovamento, anche se il tempismo dell’intuizione sembra rivelarsi come prodotto di una azione preterintenzionalmente indirizzata e favorevolmente premiata di risultati poi giudicati funzionali alla testimonianza di un mutamento effettivo che si era andato affermando in Italia, procedendo ad annunciare, premonitivamente, la stagione del ‘boom’ degli anni ‘60.

A Roma, intanto, nel pieno degli anni ‘50, da Piazza di Spagna il baricentro artistico sembra spostarsi a Via Veneto con una moltiplicazione, fors’anche caotica di istanze produttive, complessivamente anch’esse orfane di una ragione ‘intenzionale’ che le liberasse da quella aura di improvvisazione ‘marguttiana’ che diceva senz’altro di una fertilità immaginativa molto decisa, che si accompagnava, però, ad una volatilità di progetto.

A Roma, insomma, così come a Napoli, il dibattito artistico si polverizzava in una moltiplicazione di luoghi e di idee, in attesa che la sperimentazione più coraggiosa potesse trovare il suo abbrivio convincente.

A Napoli, ad esempio, gli anni ‘50 segneranno quasi una sorta di tentativo di riassorbimento delle istanze di rinnovamento nell’alveo della tradizione e sarebbe stato merito della lezione producente svolta in precedenza da autori come Emilio Notte il poter vedere che un certo numero di giovani (Di Ruggiero, ad esempio, con autorevole autonomia creativa) riesce a non subire il richiamo dell’ondata di riflusso. Ricorderemo, peraltro, le prime istanze partecipative di ordine ‘concettuale’ messe in campo da Peppe Desiato. 

Gli anni d’oro, di Lucio Amelio, evidentemente, sono ancora lontani, insomma e, con loro, l’apertura della città (quella sulla quale Rosi denuncia, intanto, le ‘mani’ rapaci del malaffare)  ad una nuova dinamica propositiva, quella da cui sarebbe nata, ancor più tardi, poi, in testimonianza di un’ulteriore ondata di ‘riflusso’ politico e sociale, con la fine degli anni ‘70 e l’avvento degli ‘80, la stagione postmoderna. Una stagione, quest’ultima, occorre subito dire, con i suoi meriti, ancora una volta,  preterintenzionali, come era avvenuto, in fondo, ai tempi del ‘Gruppo 58’, meriti da ricercarsi ora, però, col trionfo del ‘postmoderno’, nella misura del pregio espressionistico, con una possibilità di specchiamento – a ritroso nel tempo –  nell’effettualità segnica degli artisti di ‘Piazza del Popolo’ (Schifano, Testa, Angeli, Giosetta Fioroni) sempre considerati, secondo noi inopportunamente, come una sorta di testimonianza creativa di un  ‘pop’ all’italiana e non come testimoni di una volontà di rimodellazione del fare artistico all’insegna di uno sfaldamento non incosciente delle ragioni contenutistiche.

(Le immagini che corredano questo contributo storico-critico non hanno carattere esornativo, sono prelevate dalla Rete sia da fonti di pubblica possibilità di utilizzo, sia da siti di importante rilievo cui diamo tutta la riconoscenza ed il ringraziamento per aver potuto utilizzare – a mero scopo scientifico – il loro prezioso intervento documentativo)

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