La regia di Pablo Larraìn ci regala un nuovo biopic, intenso e sconvolgente, una “fiaba, tratta da una tragedia vera”. Il regista cileno torna a raccontare la storia di un’icona dello scorso secolo, attraverso un piccolo spaccato temporale. Lo aveva già fatto con Jackie, ambientandolo pochi giorni dopo la morte di JF Kennedy e lo aveva fatto con Neruda.

I biopic di Larraìn sono “contaminati” da una natura fortemente introspettiva, dalla quale è assente una narrazione delle gesta che hanno reso i suoi protagonisti noti. In ognuna delle sue opere, scopriamo Diana, Jackie e Pablo Neruda attraversa un singolo episodio rivelatore.

In questo caso conosciamo Lady D non attraverso le sue opere di carità e gli scandali, ma in soli tre giorni. È la Vigilia di Natale del 1991 e Diana dovrà passare le prossime festività a palazzo, come da tradizione, in quella gabbia dalla quale tenta disperatamente di fuggire.

Sin dalla prima scena, Diana appare sempre più fragile e insofferente. La relazione con Charles è sull’orlo della fine, Camilla è un’invisibile presenza, sempre constante e la principessa non può più sopportare di sottostare alle regole del suo rango. Diana si sente talmente tanto oppressa da perdersi nelle campagne nelle quali era cresciuta da piccola e, una volta riconosciute, desidera con tutta sé stessa rimanere in quei luoghi, sconfinati e senza regole.

Difatti, le distese e il verde delle campagne inglesi che circondano Diana, si frantumano di fronte alla routine a Palazzo. Una vita quotidiana che la angoscia nel profondo, la fa sentire sempre più isolata e chiusa, in un luogo dove passato e presente si mischiano e il futuro è inesistente.

La Diana di Larrain è persa, triste, ma irreverente, dalla risposta pronta contro ogni tentativo di obbligarla a recitare il ruolo della moglie perfetta e devota. Sicuramente, l’intento è quello di fare assumere a Lady D un valore come donna, non solo come mito. Lo spettatore entra nell’emotività dirompente della principessa, conoscendola nelle sue paure e nella sua lotta contro un sistema che la distrugge.

Kristen Stewart riesce a portare il forte carico emotivo del suo personaggio, attraverso un’intensità di sguardo e voce. Complice di questo successo, anche una fotografia che coglie ogni dettaglio interno ed esterno al castello, creando dei giochi di luce che ambiscono a sfiorare la rassomiglianza a dei quadri.

Larrain segue la Stewart con la macchina da presa, più si avvicina con i primi piani, più avvertiamo il suo senso di oppressione e il dolore. Una regia intensa, che riesce nell’intento di catapultarci nello spaccato di vita di un’icona, portandola a noi vicina. Kristen Stewart fa probabilmente la sua interpretazione migliore, che le fa ottenere una meritata nomination agli Oscar.

La sua Diana racconta tutto attraverso lo sguardo, nella memorabile scena di confronto tra la principessa e Charles, basta solo osservare lo sguardo di una Stewart immobile, per cogliere ogni sfumatura di sofferenza nei suoi occhi. Da lode i due attori che con la loro interpretazione, razionale e ferma, si contrappongono al turbinio emotivo di Diana. Anche Jack Farthing, nel ruolo di un Charles rigido, irremovibile, ma, forse, segnato anch’egli da un matrimonio infelice e incapace di proteggere la propria moglie. Si affianca anche Timothy Spall, nei panni di Alistair Gregory, algido e freddo “carceriere”.

Spencer non è solo un biopic, è una favola intima, che immerge nel mondo di una principessa, tra i suoi risvolti apparentemente belli, come la maestosità e i bei vestiti, fino a quelli più gelidi e negativi. Vale la pena soffermarsi a guardare questa pellicola, per poter percepire davvero Diana come donna e non solo come la principessa che tutti consociamo

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