Era il 27 marzo del 1952 quando nei cinema americani uscì il leggendario: Cantando sotto la pioggia’. Una commedia musicale codiretta da Gene Kelly e Stanley Donen per la MGM, sotto l’egida della gloriosa «Freed Unit». Il film, a distanza di settanta anni esatti, può essere considerato il veicolo ideale per osservare il risultato prodotto dall’incontro tra l’autoreferenzialità solitamente connaturata agli Hollywood on Hollywood movies e l’autoreferenzialità che, in maniera altrettanto tipica, connota il genere musicale nel suo complesso.

Mai, infatti, come in questo caso assistiamo a una mirabile fusione del «massimo dell’intrattenimento e del puro piacere con una riflessione teorica sulla natura dell’immagine». Nessuna analisi in merito può, però, prescindere da un paio di fondamentali considerazioni di partenza.

La prima, la più scontata è che non esiste altra tipologia di film che al pari del musical sappia assumere a suo oggetto d’elezione lo spettacolo stesso. In tal senso, si comprende bene perché Robert Stam lo indichi come il solo genere (insieme all’animazione) che costituisca una sorta di eccezione al predominio della verosimiglianza del narrato in quanto forma esteticamente dominante all’interno della classicità hollywoodiana: «Dal momento che i due elementi costituivi del film musicale la musica, appunto, e la danza condividono un interesse relativamente inferiore rispetto al tradizionale procedimento mimetico, si può affermare che questo genere sia più incline di altri a forme di artificio dichiarate».

Sebbene sia capace di toccarci nel profondo, la musica non stabilisce, infatti, un rapporto immediatamente diretto con la realtà. In altre parole, eccezion fatta per alcuni rari esempi di natura programmatica, la musica non è una forma di espressione artistica di tipo intrinsecamente figurativo. Al contrario, essa procura quello che la filosofa Susanne Langer definirebbe un “corrispondente sonoro” della nostra vita emotiva e mentale. In maniera analoga, la danza realizza una stilizzata astrazione di movimenti che ognuno di noi può avere.

La grandiosità dei numeri musicali di un Busby Berkeley, con le loro scenografie chiassose e i caleidoscopici effetti visivi, la grazia fluttuante di un Fred Astaire e della sua partner più celebre, Ginger Rogers, la caratterizzazione fiabesca, dalle tonalità pastello, che permea tanto i personaggi quanto le scenografie di Il mago di Oz, il fascino squisitamente pittorico di Un americano a Parigi e l’allegra giocosità dei turbanti ornati di frutta di Carmen Miranda hanno tutti una cosa in comune: stabilendo un rapporto labilissimo con il versante della verosimiglianza, contribuiscono a creare l’impressione di un universo finzionale del tutto autonomo.

“Cantando sotto la pioggia” analizza il passaggio dal muto al sonoro mettendo in scena le diverse reazioni di tre personaggi emblematici del milieu hollywoodiano dinnanzi a questo rito di passaggio tecnologico. Mentre la silent queen Lina Lamont è destinata, a causa della sua mediocrità vocale, a diventare un reperto del passato, lo stesso destino a cui, in chiave tragica, viene condannata Norma Demond in Viale del tramonto, Kathy Selden inizia come doppiatrice, una sorta di “controfigura sonora”, e arriva grazie al suo talento canoro a un successo che il cinema muto non le avrebbe forse mai concesso.

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