Frederik Dannay e Manfred Bennington Lee. Due nomi che molto probabilmente non vi diranno nulla. Ma credeteci quando vi diciamo che li conoscete per due ordini di motivi: li avete letti anche se magari non siete appassionati del genere letterario in cui operavano o li avete sentiti nominare attraverso un unico nome, inequivocabile e impossibile da non conoscere: Ellery Queen.

Un nome, appunto; uno pseudonimo, un marchio di fabbrica indiscutibile, un segno distintivo e di riconoscimento del genere giallo. Le persone che scrivevano dietro a questo nome d’arte erano due cugini con la passione della letteratura; esordirono nel lontano 1929 con un romanzo, che forse nemmeno loro potevano immaginare, che avrebbe spalancato le porte di una delle serie di libri gialli più famosi della storia: 35 in totale, suddivisi in due periodi. Il primo dal 1929 al 1958; il secondo dal 1963 al 1972. 43 anni di storia del genere giallo.

Il personaggio era lo stesso autore omonimo, figlio di un tenente della polizia di New York, il quale, in aiuto del genitore, risolveva i casi più intricati. Un canovaccio, un copione, semmai, usato spesso anche nei vari show televisivi di quegli anni. Specialmente a partire dal decennio 1950. Inoltre, sempre con il nome di Ellery Queen venne realizzata anche una serie televisiva omonima che chiuse dopo una sola stagione. Poco seguita? No, purtroppo. Ci fu l’improvvisa scomparsa dell’attore, Jim Hutton, che ricopriva il ruolo del protagonista, ovvero il padre di Timothy Hutton.

Ma questo articolo, in fondo, vuole essere una sorta di ‘recupero estivo’. Si, perché uno dei due cugini il 3 aprile di cinquanta anni fa morì. Era Manfred Bennigton Lee. Da allora in poi la produzione letteraria non fu più portata avanti. Comprensibile come scelta. Ma il mito non è mai calato, il nome e la leggenda su quel personaggio ha continuato ad attirare lettori da tutto il mondo a partire da quel primo romanzo del 1929.

Il titolo originale era: ‘The Roman Hat Mystery’, tradotto: il mistero del cappello romano. Ma la traduzione del titolo stesso non venne rispettata e, almeno in Italia, venne pubblicato con ‘La poltrona n. 30’. Qualcuno che ha letto il romanzo direbbe, senza troppi giri di parole, che il titolo è poco azzeccato. Questa affermazione è parte vera e parte no. Di certo, in quella prima indagine, il leggendario Ellery Queen si trovò ad indagare su un omicidio avvenuto in un teatro, la cui vittima occupava la poltrona numero 30.

Il titolo scelto, però, non tiene conto di un altro particolare dal quale parte tutto il romanzo: la mancanza del cappello sullo stesso luogo. Non si sa del vero motivo di questa scelta da parte dei traduttori e degli editori, italiani, perché le critiche non furono poche in tal senso. Dal punto di vista storico cosa rappresenta questo romanzo: gli autori non seguivano una formula stereotipata, nonostante lo schema classico ed ‘istituzionale’ del genere era pressocché intatto. Puntarono tutto sulle deduzioni logiche, permettendo allo stesso lettore di partecipare alle indagini svolte dal protagonista.

Una novità assoluta, dunque. Una piccola rivoluzione di quello stesso schema ‘rigido’, e non flessibile come visto in altri generi letterari. Questa caratteristica, nelle altre storie pubblicate, diventerà un ulteriore ‘marchio di fabbrica’ di Ellery Queen.

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