Il giovedì santo per i napoletani è un intreccio di tradizione, religione e storia. Il pomeriggio si divide tra la messa e la struscio, cioè la visita a sette diverse chiede della città, per intrattenersi a pronunciare le orazioni in ciascun sepolcro.
Dopo queste fatiche, i napoletani si ritirano a casa per gustare uno dei piatti tipici della tradizione culinaria: la zuppa di cozze. Erroneamente, si ritiene che il consumare la zuppa di cozze sia legato a motivi religiosi.

In realtà, questo piatto, discende dalla dinastia borbonica. La sua creazione è dovuta a Ferdinando IV di Borbone-Due Sicilie, divenuto Ferdinando I delle Due Sicilie dopo il Congresso di Vienna. Figlio di Carlo III di Borbone, capostipite del ramo duosiciliano dei Borbone ed archetipo del sovrano illuminato. Ferdinando IV divenne Re a soli otto anni quando il padre, in ossequio al Trattato di Vienna del 1738, abdicò la corona napoletana per assumere quella di Spagna, succedendo al fratellastro Ferdinando VI, morto senza lasciare eredi.

Il piccolo Ferdinando IV, vista anche la giovane età, non poteva in alcun modo occuparsi delle questioni di Stato e pertanto, il padre decise di affiancargli un Consiglio di Reggenza presieduto da un grande statista del Settecento: il Conte Bernardo Tanucci. Le cronache definiscono il Sovrano come una persona gioviale ed amante della vita e dei suoi piacere (le donne ed il cibo soprattutto). Ma anche molto poco attenta per gli affari dello Stato.

L’assenza del padre e la mancanza di un’educazione confacente ad un Sovrano forgiò un carattere “ruspante”, a tratti forse volgare, definì la figura del “Re Lazzarone”. Un’immagine ironica anche se forse un po’ troppo stereotipata, l’ha offerta Peppino De Filippo nel film “Ferdinando Re di Napoli”. La leggenda vuole che Ferdinando, sia per il disinteresse per la politica che sottrarsi alle grinfie della moglie, l’austriaca Maria Carolina, fosse solito fuggire dal palazzo per dedicarsi ad una delle sue grandi passioni: la pesca.

Il Sovrano, infatti, era dedito camuffarsi tra i pescatori di Marechiaro, Posillipo e del Lago d’Averno per darsi alla pesca, specialmente quella delle cozze, di cui andava ghiotto. In particolare il Re, amante delle buona tavola, era particolarmente amante delle “cozzeche int’ a connola”, le cozze nella culla. Ovvero: le culle dei grossi pomodori, decapitati, svuotati e riempiti con i frutti di mare staccati dalle valve e con erbe e “odori” di gran pregio. Insomma un piatto degno del re.

Tale opulenza non passò inosservata al frate domenicano Gregorio Maria Rocco, religioso che godeva di un notevole credito presso la Corte. Si dice di lui che fosse ” più potente del Sindaco, dell’Arcivescovo, ed anche del Re” (Alexandre Dumas – I Borbone di Napoli). Il dominicano, fu ispiratore di un ospizio che accoglieva i poveri diseredati e di case di accoglienza e di istruzione, per sottrarre i giovani alla delinquenza.

Un’iniziativa notevolmente efficiente fu quella di provvedere all’illuminazione delle strade, fino ad allora inesistente, per impedire ai malviventi di compiere atti di borseggio sui viandanti. Puntando sul cuore dei fedeli, fece apporre sui muri delle case le immagini sacre, sollecitando il popolo religioso ad accendervi davanti ogni sera una lampada (Don Ennio Grossi – Padre Gregorio Maria Rocco: il Domenicano che diffuse il Presepe nelle case). Da quel momento Napoli ebbe la sua prima illuminazione.

A Padre Gregorio Maria Rocco dunque si deve anche la diffusione del presepe nelle case popolari. Questo amore profondo lo portava a prodigare nella costruzione di presepi sia nelle case private sia nelle chiese cittadine.
Il Padre, pertanto, anche virtù della sua grande opera presso il popolo, ammonì fortemente il Sovrano, invitando lo stesso ad astenersi dai peccati di gola quantomeno nella settimana santa.

Insomma: “Maestà, per questa settimana, un poco di morigeratezza e soprattutto niente ‘cozzeche int’ a
connola’, almeno fino a Pasqua ” (non saranno state proprio queste le parole del frate ma il senso era questo).
Tuttavia, Re Ferdinando, non era persona che si perdesse facilmente d’animo, ed ordinò quindi ai suoi cuochi, che
il Giovedì Santo gli servissero le cozze solo con un po’ di salsa di pomodoro e con olio di peperone piccante.
Un piatto semplice, e perciò immediatamente copiato da tutti i Napoletani, e destinato a segnare ancora oggi la
tavola del Giovedì di Pasqua.

Non ci si azzarda a pubblicare una ricetta alla fine di quest’articolo dal momento che non si ha nessuna presunzione
di voler dare lezioni di cucina e poi perché, soprattutto, tante e tali sono le varianti riscontrate e degustate che si fa
fatica a capire quale sia la vera zuppa di cozze. Si può sposare appieno quanto teorizzato da Angelo Forgione. Cioè che esistono due tipi di ricette della zuppa di cozze: quelle semplici e quelle abbondanti.

Quelle semplici, sono rispettose degli ammonimenti del frate domenicano, quelle abbondanti, invece rispecchiano
“cozzeche int’ a connola” e soprattutto il volere del Sovrano, costretto a qualche piccolo sacrificio, pur di ammansire
un po’ il Padre Gregorio Maria Rocco. In ogni caso, buon giovedì santo, e qualcuno gridi anche “Viv’o Ré”, lo si potrà certo comprendere.

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