Il dodicesimo appuntamento con la serie di articoli dedicata al Chiarismo

“Questo artista – abbiamo sostenuto in altra occasione di approfondi- mento di studio – è personalità intrisa di esiti sottilmente romantici che si innervano in una temperie ‘novecentista’ praticata più con fastidio, forse, che per convinta adesione”31 sapendo scegliere il Nostro di essere attento anche a fenomeni di diversa tempra culturale ed appartenenti ad una dimensione apparentemente ‘parallela’, rispetto al processo ‘sarfattiano’, come, in fondo, fu la ‘Bagutta’. In questa difficile operazione di sintesi, quindi, tra sensibilità ‘naturalistica’ lombarda, ‘realismo’ emiliano e ‘tonalismo’ vene- to si racchiude lo spessore di qualità del contributo di Mario Vellani Marchi alla prospettiva ‘chiarista’, che va, intanto, espandendo territorialmente ed ampliando concettualmente il proprio orizzonte identitario.

A nostro giudizio si rende possibile, a questo punto, avere considerazione di un’ulteriore dilatazione della esperienza di una pittura svolta in termini ‘categorialmente’ ‘chiaristi’, seguendo lo sviluppo di un orienta- mento produttivo che non è semplicemente di pittura ‘chiara’ o ‘schiarita’, ma di pittura che svolge un proprio indirizzo creativo imperniato sulla luce, rendendosi capace di provvedere a costruire l’immagine come impermanenza luministica che genera le forme, andando a leggere la realtà epifenomenica e il dato dell’esperienza storica secondo una chiave interpretativa ispirata dal ‘candore’ della coscienza e dalla ‘innocenza’ della visione.

Alcune altre figure di artisti, pertanto, possono essere fertilmente ri- considerate, a nostro giudizio, secondo un inedito profilo di lettura critica ‘categorialmente’ ‘chiarista’, figure di artisti che hanno sviluppato una pit- tura cromaticamente consapevole del ruolo decisivo che avrebbe dovuto giocare la luce: una luce mai meridiana e tagliente, ma soffusa e discreta, insinuante sì, certamente, ma solo per consentire un afflato psicologico alle cose e mai un accesso inopportuno e irruento.

Procederemo alla lettura inedita sub specie ‘chiarista’ di alcune personalità che ci apprestiamo ad introdurre, grazie alle quali si può intervenire non soltanto a dilatare l’escursione territoriale di tale pittura, ma a prevederne anche una più ampia estensione cronologica.

Una più larga prospettiva dei tempi può rendersi ancora più interessante e storiograficamente rivelativa, se si tiene conto che tale dilatazione cronologica accompagna la durata d’anni del prolungarsi delle vite dei più significativi esponenti dello stesso ‘Chiarismo lombardo’, considerando, ad esempio, che Del Bon scompare nel ’52, ma Spilimbergo nel ’75, De Rocchi nel ’78, Lilloni nell’80, De Amicis nell’’87.

Introduciamo, quindi, i nomi di personalità di artisti che ci convince accreditare nella temperie allargata ‘chiarista’, ritenendo di poter identificare nella loro azione creativa non soltanto il dato fenomenologico di una pittura d’atmosfera, sfibrata nel ductus e vaporosa negli afflati tonali, ma anche psicologicamente flebile, e moralmente disincantata, svolta all’insegna di una spiccata ‘innocenza’ dell’animo, una pittura, insomma, di ‘lirismo critico’.

Nel muovere alla ricerca di un’immagine ‘dilatata’ della temperie ‘chiarista’ non ci sfugge che può essere utile andare a sondare le stesse acque di ‘Novecento’, tentando di capire se, nelle loro profondità, al di là del tributo alla retorica magniloquente ed alla logica dei volumi, non possa nascondersi qualche ansito di ‘innocenza’ che si manifesti e si proponga come possibile ‘deriva’ ‘antinovecentista’ – all’interno stesso di ‘Novecento’ – leggibile, sia pure con generosità critica, entro l’ambito di una temperie ‘chiarista’ più ampia.

Per cercare cose di questo genere ci sembra opportuno e dirimente proprio l’affaccio nella ‘tana del lupo’, in quel contesto cremonese, cioè, che costituisce il fulcro ambientale della azione di Roberto Farinacci, gerarca fascista di primissimo piano e promotore del ‘Premio Cremona’, che agì dal 1939 al 1941.

E qui troviamo un artista come Mario Biazzi (1880-1965), del quale vorremmo additare due opere che, pur iscrivendosi nella temperie propriamente ‘novecentista’ e nel contesto, in ispecie, di una visione retorica, propagandistica e paludata delle cose, contiene, tuttavia una carica di sot- terranea mestizia che si mette in evidenza come impermanenza luministi- ca e come nebulosità baluginante che si diffonde sulle figure che affollano i dipinti che prendiamo in esame.

E ci riferiamo in particolare ad Ascoltazione del discorso del Duce, un dipinto della Camera di Commercio di Cremona e a Gruppo di famiglia del 1922, passato per la ‘Mascarini’ con un intervento critico di Marco Tanzi.

Giova osservare che a questo artista la critica riconosce “una stesura a lunghe pennellate liquide e velocissime”, che ben s’addice alle soluzioni creative di una pratica pittorica tutt’altro che acriticamente versata alla immagine d’assetto compiuto e monumentale della rigidità compositiva ‘novecentista’ ed aperta, piuttosto, pur entro i parametri del dettato, allora, di una ‘muscolarità’ prevalente, a sperimentare soluzioni di ricerca di una dimensione più ‘intima’ e pacata. La stessa cromia, ricca e luminosa, accredita una ricerca di bilanciamento coloristico che, pur non potendosi definire spiccatamente ‘tonale’, rifugge, tuttavia, l’ab- bruciamento nelle umbratilità ocrogrigiastre32.

Con la personalità di Mario Biazzi (1880-1965), additeremo anche quelle di Ermanno Pittigliani (1907-1979) allievo di Semeghini, legato all’ambiente monzese e poi, dopo la guerra, al contesto del ‘Gruppo artisti mantovani’, e di Carlo Mattioli (1911-1994), di cui osserviamo, già entro il decennio degli anni ’40, la proposta di una pittura, ancora una volta di gruppo e di figura, che suggerisce un’immagine straniata e sperduta del soggetto umano, sfaldata nel ductus, costruita nel colore piuttosto che nel disegno e pervasa da una luminescenza ineffabile, certamente non presieduta da un deciso ‘chiarore’ luministico, ma attraversata da una sorta di bisogno di intimità e di innocenza. Può essere utile, inoltre, per avere una ancor più compiuta opportunità di conferma della nostra prospettiva critica, mettere in rilievo i tratti di accomunabilità riscontrabili tra qual- che prova figurativa di Mattioli appena citato con un’altra di Vellani Marchi, suggerendo un confronto, ad esempio, tra Riposo di Mattioli e Merlettaia buranella di Vellani Marchi, opere entrambe eseguite nel 1941, e tali da poter proporsi come possibili prospettive di evoluzione di quella temperie ‘chiarista’ che, a nostro giudizio, deve intendersi più ampiamente espansa non solo nell’ambito spaziale, ma anche nella durata temporale.

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