Dalla crudele morte di Emmett Till al ‘Sogno’ di Martin Luther King

Ma questo discorso, di cui proprio oggi si stanno celebrando i sessanta anni, ha una particolarità che forse, molto probabilmente, sono a conoscenza veramente in pochi. In quei lunghi diciassette minuti in cui l’umanità sembrava essersi ritrovata nella sua più totale essenza, in un perfetto misto di semplicità e speranza, le parole proferite dal Reverendo di Atlanta non erano tutte quante comprese nel testo preparato nei giorni precedenti; per non dire anche nelle settimane precedenti.

Dopo i sette paragrafi cosiddetti ufficiali, ovvero quelli scritti, rivisti e corretti, provati e riprovati, quello che poi venne esternato dallo stesso Martin Luther King era tutto improvvisato. A questo punto vi chiederete qual era la parte non preparata? Proprio quella parte per cui stiamo celebrando sessanta anni dopo di tale discorso. Si dice che la parola ‘sogno’, lo stesso Martin Luther King non era la prima volta che la usava nei suoi sermoni. Si dice, esattamente, dal lontano 1960.

Durante quella giornata, durante quella marcia con la presenza di più di 250.000 persone giunte da ogni parte d’America al Lincoln Memorial, si dice che la stessa Mahalia Jackson, grandissima cantante gospel con nessuna parentela del Re del Pop, che abbia urlato al Reverendo di Atlanta, dopo la fine dei sette paragrafi ufficiali questa frase: Martin, parlarci del sogno.

A confermare quanto stiamo riportando anche alcuni testimoni oculari, vicini al palco e dietro allo stesso Martin, secondo cui lo stesso non avrebbe più letto neanche una parola di quello che c’era scritto e il testo lo tenne solamente come una sorta di guida, per non dire di canovaccio.

Quella pacifica manifestazione, ufficialmente, era conosciuta come La marcia su Washington per il lavoro e per le libertà. Era in verità una prova. Da tempo le varie comunità nere degli Stati Uniti d’America, coadiuvati da ulteriori volontari, stavano facendo ascoltare la propria voce colma di sofferenza e di rabbia. Certo, dall’inizio di questo speciale abbiamo ricondotto tutto ai famosi otto anni distanza dal 28 agosto del 1955 a quello del 1963. Una data simbolo, dunque.

Una data in cui tutte le richieste di uguaglianza da parte della gente nera poteva venir o confermata o addirittura respinta. Ma perché era una prova in tutto e per tutto? Per un semplice motivo. Sette anni prima, con la storica sentenza della Corte Suprema in favore della prima parte di abolizione della segregazione razziale sui mezzi pubblici il Reverendo King e il movimento per i diritti civili avevano solamente attirato l’attenzione.

Il nuovo modo di lottare per ottenere qualcosa d’importante lasciò impressionata tutta la nazione, ma serviva altro. Bisognava andare oltre e per ottenerlo era necessaria una prova, appunto, in grande stile proprio nel cuore della democrazia. In quel torrido 28 agosto, non torrido quanto ai giorni nostri s’intende, alla presidenza c’era John Fitzgerald Kennedy il quale, fino a quel momento non si era proprio lanciato al cento per cento in favore sulla questione razziale.

Ciò significa che se una parte di proteste era stata organizzata e avvenuta in modo pacifico, l’altra metà avveniva attraverso l’esasperazione per le continue ingiustizie subite portavano ad una reazione contro l’ordine pubblico. Si pensi al discorso che lo stesso Kennedy fece la sera stessa in cui venne assassinato Medgar Evers, l’11 giugno 1963.

Con Washigton si alzò il tiro, per non dire il livello. Con quella marcia si voleva dire, in unico modo e del tutto inequivocabile, che la gente nera era pronta per ottenere ciò che gli spettava di diritto da quasi ben duecento anni, per non dire appunto solamente cento. Il Presidente Kennedy dunque non rimase solamente soddisfatto del risultato che la marcia aveva prodotto.

Infatti, si mormora che lo stesso Presidente attese il futuro premio Nobel alla casa bianca e lo accolse con la stessa frase che aveva pronunciato qualche ora prima: I have dream. A distanza di sessanta anni, certo, le cose non sono andate come lo stesso reverendo si auspicava. Eppure, molti neri, molta gente appartenente della comunità nera è riuscita a fare molti passi in avanti.

Non si deve mai e poi mai dimenticare, prima dell’arrivo di Donald Trump alla presidenza, che un nero è finalmente entrato alla Casa Bianca proprio come Presidente. Stiamo parlando di Barack Obama. Non è un caso che l’elezione del primo Presidente afroamericano della storia degli Usa è avvenuta nel 2008. Esattamente quaranta anni dopo l’assassinio sia dello stesso Martin Luther King e il Senatore Robert Francis Kennedy.

Su questi due omicidi si è sempre sostenuto che il primo venne assassinato a causa della possibilità di essere il vice presidente proprio sotto Kennedy, il quale aveva sempre sostenuto le battaglie del Reverendo facendo muovere in prima persona, finalmente, anche John. Ovviamente si parla di storia e anche di dicerie che, con il tempo, si trasformano in mere e proprie leggende.

Per paradosso è la stessa storia degli Stati Uniti a fondarsi, non proprio esclusivamente, su leggende, ma su fatti esaltati nel corso del tempo. Anche quello che accadde sia il 28 agosto del 1955 e maggiormente quello che accadde il 28 agosto del 1963 deve essere esaltato. Ovviamente con i dovuti modi, con la dovuta anamnesi che in questi casi si deve fare spazio.

All’indomani del ritrovamento del corpo del povero Emmett le cronache non ci riportano di strade messe a fuoco o comunque proteste violente con vetrine infrante. No, avvenne qualcosa di strano. Si potrebbe quasi parlare di una sorta di silenzio da parte della comunità nera per poi attendere il momento propizio per colpire i razzisti.

Quel momento venne rappresentato dall’atto di ribellione di Rosa Parks e non rappresentava solamente un semplice no. Rappresentava qualcosa di più, ovvero una sola parola: Basta.

E I Have Dream cosa può significare ancora? Cosa potrà voler dire per le nuove generazioni, anche per quelle che cercano di far ascoltare la propria voce solo perché vessate da atti di mero razzismo e di altre forme di prevaricazione? Il modo più semplice e pacifico per combattere con forza ogni forma di violenza, senza dover ricorrere alla violenza medesima e chissà cosa ne penserebbe lo stesso autore al giorno d’oggi?

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