Sensibilità figurative e cultura critica dell’arte nel rapporto tra arte e potere nella Germania di Weimar e del regime nazista

La Germania esce sconfitta dal primo conflitto mondiale, ma esce, soprattutto disidentitata. Le arti figurative prendono a descrivere il volto nuovo che va assumendo il paese – la cosiddetta Germania di Weimar – un volto che ha le prerogative di una riconoscibilità più nei termini di una prospettiva idealmente  ‘pangermanica’, che non in quella di una cultura effettivamente ‘nazionale’ tedesca, tracimata, quest’ultima, piuttosto, nelle spire oscure del peggiore ‘nazionalismo’, piaga della quale non sono immuni nemmeno i regimi dell’Europa cosiddetta ‘liberale’.

Il nazionalismo è un male bieco ed insidioso e rende tutte le prospettive ampiamente falsate. Può essere molto facile, infatti riconoscere il taglio ‘nazionalistico’ del ‘tedesco’  come cittadino di Berlino, di Monaco, di Norimberga, di Dresda, di Heidelberg o di Colonia, ma è praticamente impossibile riconoscere ciascuno di questi tedeschi, provenienti da queste rispettive e diverse aree territoriali, come portatore di ‘valori’ culturali effettivamente condivisi, immaginando che tutti questi ambiti ambientali possano specchiarsi in una unica compartecipata specificità identitaria.

Basterebbe la sola differenza delle adesioni confessionali religiose per spiegare le ‘differenze’ che dividono le comunità culturali tedesche tra loro, pur essendo i rispettivi rappresentanti consapevoli di una appartenenza comune più generale: quella germanica. Qualcosa di simile è riscontrabile, anche altrove in Europa, e, particolarmente nel contesto italiano.

Cercheremmo di dire, insomma, che la condizione di ‘tedesco’ è più specificamente legata alle caratteristiche distintive delle comunità locali, mentre la prospettiva di una coscienza ‘pangermanica’ è qualcosa che vale ad accorpare in unità le diversità di ‘tutti’ i tedeschi. Non a caso uno dei primi provvedimenti politici di Hitler fu quello dell’’Anschluss’ e, non senza ragioni, il casus belli della seconda guerra mondiale è stato quello della riunione di tutti i tedeschi e della ricerca di uno spazio vitale ‘pangermanico’.

O. Dix, Trittico della città, 1927

Cosa c’entra questo con l’arte? C’entra, giacché tra prima e seconda guerra mondiale avviene che i processi culturali sembrano sottostare ad una sorta di omologazione formale che, azzerata la carica propulsiva della cultura d’avanguardia (che, peraltro, in Germania, come in Italia, non aveva avuto particolare fortuna) si profila modellata secondo una sensibilità figurativa che ha certamente tagliato i ponti con l’Ottocentismo e produce una ricerca di forme taglienti ed  acutamente modellate secondo una sorta di sospensione spazio-temporale. Il clima politico e sociale è quello della Germania di Weimar che tenta di creare un proprio profilo di democrazia ‘liberale’, rimanendo, però, a metà del guado tra il salto verso una ‘democrazia’ partecipativa effettivamente praticabile ed una nostalgia dirigistica di più antica ascendenza che teme di perdere il proprio ruolo di influenza.

In Italia, almeno in parte, queste cose le si può leggere, in campo artistico,  secondo un’ottica solo parzialmente riconducibile alla temperie ‘novecentista-sarfattiana’; e spiccano di originalità figure come Donghi, Casorati, Cagnaccio di San Pietro, Ugo Celada, Nicola Fabbricatore, mentre, in Germania, appare molto più compatta e puntuale – e caratterizzata da una sorta di freddo controllo formale – la pratica creativa di una pittura che appare distinta da risentimento segnico e da irrigidimento timbrico, come può osservarsi nel contesto della pittura di ‘Nuova Oggettività’ – Neue Sachlichkeit – che accomuna, peraltro, un universo che va da Grosz, Dix, la Kollwitz (tutti di più netta marcatura espressionistica), fino  a Shad e Grossberg, abbracciando anche figure come Schrimpf e come Sholz, ma anche Adolf Ziegler, in fondo e Bettina Feistel Rohmeder o Werner Peiner, significativamente legati questi ultimi, al regime hitleriano.

W. Peiner, Coppia in uniforme, 1944

L’interrogativo che si pone è quello della profilatura ‘contenutistica’ di questa arte che viene accreditata spesso ‘tutta’ di caratura espressionistica, pur meritando tale identificazione solo una parte di essa, come quella che, come abbiamo già osservato, in dettaglio, è esemplata da Dix, Grosz, Sholz e dalla Kollwitz.

Di fatto, a nostro giudizio, l’insieme delle logiche neusachlichketiane meriterebbero, piuttosto, una sottolineatura solo degli ispessimenti segnici e timbrici oltre che di quell’atmosfera di ‘sospensione’ che si profila distinta soprattutto nelle atmosfere del ‘Realismo magico’; e ciò consentirebbe di distinguere meglio delle peculiarità creative che si presentano molto puntualmente evidenti soprattutto in autori italiani come Cagnaccio o il Celada.

Trova, quindi, giustificazione una lettura di considerazione unitaria della profilatura del ‘realismo’ tra le due guerre, se ne osserviamo il gradiente integrato neusachlichketiano-magicorealista-espressionistico, avendo conto che tale impostazione critica richiede, però, un ampliamento prospettico che chiama subito in causa, inoltre, anche altri autori, non più  solo tedeschi ed italiani, come Alexandr Deyneka o come Lucien Freud o Thomas Benton, per non dire dello stesso Corolla, che può essere considerato antesignano del processo.

C. Grossberg, Stampatrice, 1934

Si va a rimodellare, in tal modo, una profilatura storiografica e ‘geografica’ della pittura europea (ma anche statunitense) tra le due guerre mondiali, che acquista una sua caratterizzazione di più netta caratura complessivamente continentale che non ‘nazionalmente’ partita; e ciò può trovare una sua giustificazione anche ideologica e morale, lasciandoci la possibilità di osservare come le ‘democrazie’ cosiddette ‘liberali’ – in testa quella inglese – avessero molte cose in comune con le matrici di pensiero che animavano anche i regimi dittatoriali fascista e nazista (basterebbe pensare già alla sola vocazione colonialistica, al cui interno l’arte non svolge un ruolo marginale, come ci rivela, ad esempio, una personalità di artista come Giorgio Oprandi che riprende una tradizione ottocentista di vocazione cosiddetta ‘orientalista’ ed esemplata anche in ‘mostre’ nazionali di un certo rilievo come quelle degli anni ‘30 di Roma e di Napoli).

G. Schrimpf, Terrazza, 1923

Una lettura della produzione artistica di questo periodo consente insomma di osservare quanto l’Europa condividesse un bisogno di riconoscersi in una cultura degli oggetti e della ‘modernità’ che era viva espressione della nuova sensibilità culturale che nasceva dal compiersi del processo trasformativo del modello sociale che assumeva i tratti di una società di massa.

Ciò che conta non è quindi la caratura del modello generale, quello neusachlichketiano-magicorealista, che sostanzialmente intride tutta l’arte europea che ha risposto all’istanza (nata subito dopo la fine della prima guerra mondiale) di un ‘rappel à l’ ordre’, ma è l’intendimento morale e politico che distingue i singoli artisti, rendendo divaricate le soluzioni creative di uno Ziegler, ad esempio, rispetto a quelle di uno Schad o di un Dix, che possono essere giudicate molto prossime tra loro stilisticamente, ma abissalmente differenti sul piano contenutistico.

(Le immagini che corredano questo testo, che ha finalità scientifiche e non commerciali, hanno scopo documentativo e non esornativo. Esse sono state prelevate dalla Rete da fonti che si configurano di libero prelievo, e se ne ringraziano gli Autori).

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