Dinamiche creative di una stagione dell’arte nordamericana in cui le logiche di riproduzione artistica della realtà giungono alla esaltazione suprema delle loro possibilità

Non v’è dubbio che l’approccio figurativo è sempre stato un obiettivo significativo e nodale della pratica artistica: si comincia dalle grotte preistoriche e si continua tutt’oggi. La storia ha segnato, col suo corso nel tempo, il susseguirsi di varie stagioni in cui, di volta in volta, la capacità di restituzione ‘fedele’ del dato epifenomenico è stata più o meno alta. Gli anni ’60 del XX secolo si segnalano come il periodo in cui la pratica creativa della raffigurazione della realtà raggiunge i suoi vertici più prestigiosi. È questo il periodo in cui fiorisce negli Stati Uniti il movimento iperrealista che è conosciuto anche come Fotorealismo.

R. Estes, Jone’s Diner

Tale movimento si prefigge di produrre opere d’arte di carattere figurativo che siano capaci di proporsi concorrenziali con la fotografia, sul piano della resa realistica.  Il progetto è molto ambizioso, e sarà bene osservare che esso fonda le sue radici nella straordinaria tradizione ‘realistica’ americana che era già pervenuta a notevolissimi risultati con gli ottenimenti maturati da personalità come Hopper, più tardi come Segal, non dimenticando le  peculiarità distintive di movimenti come quello del Precisionismo con l’azione specifica di artisti come Charles Sheeler.

D, Hanson  Figura seduta, 1977

L’Iperrealismo accresce la portata della fedeltà riproduttiva dell’oggetto preso a modello, anche se proprio questa distinta e quasi maniacale ricerca della adesione perfettissima al dato oggettuale finisce col creare una sorta di atmosfera di sospensione irreale, una condizione ‘astrattiva’ in cui il tempo stesso sembra fermarsi.  La prospettiva che così si apre e che noi definiamo di ‘sospensione’ è esattamente ciò che costituisce il filo di legame con le pratiche creative hopperiane, precisioniste ecc. che si erano distinte per aver messo in evidenza uno stato  di ‘solitudine’ che si costituiva come tempestiva rilevazione critica di una condizione di sperdimento individuale e sociale che andava attanagliando il cittadino americano già all’aprirsi del secolo ventesimo con il processo pervasivo dell’urbanizzazione e della industrializzazione.

C. Close, Autroritratto, 1968            E. Fischl, Ritratto di donna, 1989

L’Iperrealismo non agisce, però, solo come avevano provveduto a fare Hopper o il Precisionismo, nella prima metà del secolo, limitandosi ad analizzare il modello e ad iscriverlo in uno spazio, ma agisce, negli anni della seconda metà del ‘900, con più intensa determinazione ‘realistica’ affermandosi, in particolare, come voce distintiva di quel decennio degli anni ’60 in cui fiorisce, peraltro, anche il fenomeno ‘Pop’. Quale è, allora, occorre interrogarsi, la relazione che si stabilisce tra Iperrealismo e Pop-Art? Entrambe queste vie di approccio all’arte, bisogna subito osservare, pescano nel mondo delle merci, al cui interno la ‘Pop’ sembra voler descrivere l’’icona’ dell’oggetto e l’Iperrealismo l’’immagine’ dell’oggetto.

Con tali prerogative questi due fenomeni creativi degli anni ’60 si possono scoprire paralleli e complementari, spiegandosi molto bene, in tal modo, come essi possano anche apparire, in fondo, sostanzialmente freddi ed anonimi, non prestandosi a voler fornire una interpretazione delle cose, ma solo una mera restituzione pedissequa d’immagine apparente. Il vecchio tema caro alle logiche positivistiche ottocentesche di un’immagine – letteraria o artistica, poco importa – che dovesse apparire essersi fatta da sola, sembra qui essere ampiamente ripreso e rilanciato, quasi in ossequio al dettato naturalistico dei suggerimenti  teoretici e creativi variamente articolati, nella vecchia Europa, da Taine, da Flaubert, da Zola, da Verga da Capuana, da Courbet, da Michetti, da Palizzi ecc.

E gioverà ricordare che proprio questi stessi autori europei, tempestivamente a fine ‘800, sono quelli che hanno tenuto in gran conto l’incidenza ormai ineludibile dello strumento fotografico, di cui hanno imparato molti di essi stessi a fare uso, senza intendere, però, istituirvi una sfida.

R. Goings, Dodge, 1971

Gli Iperrealisti americani, invece, questa sfida alla fotografia la lanciano: una sfida, talvolta, anche impropria, giacché essi utilizzano lo stesso strumento fotografico come specchio rivelativo del proprio impegno di restituzione pedissequa del dato empirico, non rendendosi conto – o, al contrario, essendone consapevoli – che proprio questa stessa sfida alla restituzione particellare del più minuto dettaglio ‘realistico’ avrebbe finito col deprivare la propria impresa di quel risultato di perfetta adesione al vero che immaginavano di poter conseguire. E ciò si spiega facilmente semplicemente considerando che il perseguimento della assoluta fedeltà riproduttiva avrebbe prodotto il risultato di una immagine deprivata del tempo, una immagine, cioè, estrapolata dalla credibilità esistenziale ed assunta come una enucleazione dalla consistenza fenomenologica in premio di una mera costituzione in ipostasi ideale.

E. Fischl, Spiaggia, 2006

Le ragioni iperrealiste si legano, si intrecciano e si confondono, come è possibile agevolmente comprendere, con quelle del ‘Fotorealismo’, che è definizione critica, più o meno parallela, che vale ad identificare il medesimo fenomeno artistico di cui discutiamo, definizione creata da Louis Meisel nel 1968, ed utilizzata ancora nel 1970 nella mostra dei ‘Twenty two Realist’ al Whitney Museum of American Art.

Lungo tale via si colloca gran parte della produzione americana di carattere iperrealista, sia di stampo pittorico che scultoreo, variamente dispiegata nelle delibazioni di autori come Chuck Close, Richard Estes, Duane Henson, Ralph Goings, Eric Fischl ecc.

In alcuni di tali artisti, pensiamo in particolare a Fischl, si profila talvolta una sensibilità più pronunciata verso l’istanza del richiamo esistenziale; e ciò rende la pratica creativa di questo artista (considerato, non a caso, anche prossimo a sensibilità ‘espressioniste’) più vicina alle dinamiche che sono proprie del versante europeo dell’Iperrealismo americano, cui noi abbiamo attribuito l’appellativo di ‘Iperfigurazione’, scorgendo, nella delibazione europea appunto ‘iperfigurativa’ e non ‘iperrealista’, l’emergere distinto di un calore partecipativo assolutamente distonico rispetto alla freddezza dell’Iperrealismo americano. Ma tutto questo, evidentemente, è altro discorso.

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