Tentiamo di ragionare su alcuni pensatori che, guardando al processo comunicativo, negli anni ‘60, hanno spiegato dove stava andando il mondo, indicando che la chiave di lettura del processo poteva essere l’Arte

La seconda guerra mondiale era ormai terminata da 15 anni: era finita con la tragedia dell’atomica; e gli anni ‘50 erano ormai trascorsi con l’Europa che provvedeva a ricostruirsi e l’America che si ‘espandeva’ nel suo disegno egemonico globale. Giungono, così, gli anni ‘60, gli anni in cui tutti gli sforzi di rinnovamento si proiettano verso l’obiettivo del progresso e dello sviluppo, quello che viene definito in formula, il ‘boom economico’. Alla fine del decennio, sarebbe stata conquistata anche la Luna.

Due opere di A. Warhol e di R. Lichtenstein

Nel mondo delle arti figurative si affermano nuovi linguaggi e sperimentazioni innovative;  e, però, come avviene nelle ricerche creative proprie della ‘Pop-Art’, ciò che assume maggior peso, fino a farsi protagonista della dirimente valoriale della ricerca stessa, è l’aspetto della rilevanza della dimensione economica nel processo della attività creativa (Warhol).

Avendo considerazione di tutto ciò, si può osservare, allora, che  si tende a spingere lo sguardo verso i nuovi orizzonti della comunicazione aperta ed allargata, cercando di ampliare la prospettiva di analisi del reale. Ci si convince, ad esempio, che tutto quanto era avvenuto nel primo cinquantennio fosse da buttare alle ortiche, tranne, forse, delle esperienze definibili di ‘avanguardia’, che erano maturate tra primo e secondo decennio del secolo del ‘900 e che, però, le atmosfere del ‘ritorno all’ordine’ avevano lasciato appannare. L’avvento, infine, dei regimi totalitari in Italia e Germania aveva addirittura lasciato affermare la concezione che quelle ‘Avanguardie’ fossero solo  ‘arte degenerata’.

Marshall Mc Luhan ed Herbert Marcuse

Di fatto, questa valutazione complessiva, ingenerosa e sommaria della ricerca più coraggiosa del primo cinquantennio del ‘900  era semplicistica e tendenziosa, per vari motivi: innanzitutto perché era frutto di una violenza ideologica, poi perché accorpava tutte insieme molte cose che, invece, andavano distinte. Non tutto ciò che, in questo periodo di prima metà del secolo, infatti, sembrava essere stato ‘d’avanguardia’ effettivamente lo era (ad esempio, il Futurismo non può essere giudicato un’avanguardia) e, poi, non tutto quanto esprimeva il ‘Ritorno all’ordine’ (manifestatosi nell’immediata successione della prima guerra mondiale) era ciarpame senza valore. In aggiunta, occorre subito dire: non tutto ciò che si profilava ora all’orizzonte (nell’atmosfera esultante dell’esordio degli anni ‘60) era davvero tutto oro, anche se ne ostentava il brillio ed il luccichio.

Qui giunge l’azione di alcuni pensatori che, apparentemente, non si occupano ‘direttamente’ del mondo delle arti, ma che, di fatto, parlano proprio di esso: e ne parlano a ragion veduta, dal momento che hanno capito una cosa fondamentale, che consiste nel considerare l’arte nient’altro che un aspetto (certamente quello più incisivo) del processo comunicativo. E questi pensatori, allora, dedicano la loro massima attenzione proprio al processo della comunicazione e le loro analisi non dovranno essere prese sotto gamba, poiché contengono molta verità.

Guy Debord e Pinot Gallizio

Cominciamo col primo su cui vogliamo lasciar planare la nostra attenzione: Marshall Mc Luhan: è canadese, nel 1961 è ampiamente maturo: ha cinquant’anni e si avvia a dare ampio respiro ad un concetto che lo appassiona e lo convince costituendo il nucleo centrale ed addensato del suo pensiero: ‘il medium è il messaggio’. Cosa vuol dire: molto semplice: che non conta ‘che cosa’ si dice, ma ‘come’ lo si dice, avendo conto che il ‘come lo si dice’ non attiene semplicemente alle forme esplicitative del ragionamento, ma forse soprattutto agli strumenti della comunicazione, che è, ormai una comunicazione allargata e globale, polisemica, in cui si integrano i codici linguistici, mentre tutto concorre a formare l’ordito a rete dei messaggi che circolano all’interno del villaggio globale.

Il concetto di ‘villaggio globale’, ovviamente, si propone come una sorta di ossimoro: la dimensione contenuta del villaggio estesa alla dimensione panica della globalità. Ma, di fatto, un ossimoro non è; e Mc Luhan ci sta semplicemente spiegando che tutto il mondo è diventato un ‘villaggio’, con le dinamiche tipiche che lo attraversano, con una comunicazione spesso caratterizzata dal ‘sentito dire’, dalla approssimazione e dalla intenzione non sempre innocente che presiede l’ispirazione dei contenuti.

P. Gallizio, Rotolo di pittura industriale

Basta tutto ciò a perimetrare la realtà che si sta manifestando con tutta la sua forza nei primi anni ‘60? e di cui Galassia Guthenberg di Mc Luhan, nel ‘62, già mette in evidenza con lucidità i tratti distintivi? No, per niente; ed infatti, a distanza di qualche anno, nel 1964, Herbert Marcuse, nel suo volume dal titolo di L’uomo a una dimensione, si interroga sul tema della deriva che caratterizza il modello ispiratore della società consumistica, osservando che il soggetto umano è sottoposto ad una sorta di processo di eterodirezione dei comportamenti che ne riducono la capacità critica entro il ristretto di una omologazione appiattita per favorire il condizionamento di massa e promuovere quella cultura delle merci che costituisce il motivo di attrazione e motivazione fondamentale della molla del piacere che giustifica l’impegno umano. Queste notazioni, già anticipate in qualche modo nei contenuti del suo precedente Eros e civiltà segneranno una svolta nella consapevolezza sociale, soprattutto in quella delle più giovani generazioni, che, del pensiero di Marcuse faranno una propria bandiera, ad esempio, nel contesto della stagione del ‘68.

Anche le arti, nel pensiero di Marcuse, – che lo vogliamo o no – rientrano in questo progetto di grande condizionamento sociale ed i processi di eterodirezione del pensiero appaiono sempre più manifestamente istradati lungo un processo di mortificazione della ragione critica, coinvolti in una sorta di ubriacatura collettiva che cattura le menti all’interno di una sorta di gioco, che deve valere a convincere la società di vivere sulla scena di una grande rappresentazione, all’interno di ciò che Guy Debord definisce, nel suo omonimo testo del 1967, con la lapidaria espressione di ‘Società dello spettacolo’.

G. Fioroni, Liberty viennese

Debord è il terzo dei pensatori su cui intendiamo richiamare l’attenzione ed è, forse, fra i tre, quello che, con maggiore incidenza ed approfondimento valutativo, considera il ruolo delle arti nel processo di accerchiamento compressivo che va subendo la ragione critica ad opera di un ‘sistema’ sempre più pervasivo degli spazi dell’indipendenza di giudizio e di ciò che potremmo anche definire con l’appellativo di ‘ragione critica’.

Il punto di coagulo di questa prospettiva delle cose, sul piano della prassi creativa artistica può essere riconosciuto in alcune manifestazioni propositive che tendono a dimostrare come l’arte non possa arrendersi di fronte allo strapotere della politica e dell’economia.

Si impone, insomma, innanzitutto, una presa di coscienza di quelle che sono le potenzialità degli strumenti dell’arte, strumenti che sono del mondo delle comunicazioni e di cui occorrerà riorientare il corso e gli intendimenti. Nasce l’Internazionale lettrista (Isidore Isou) e, soprattutto, l’Internazionale Situazionista; ed all’interno di tali percorsi si afferma un indirizzo produttivo di carattere internazionale di cui un importantissimo punto apicale può essere considerato, nella specie, quello della cosiddetta ‘pittura industriale’, che viene praticata da Pinot Gallizio e che trae spunto dalle esperienze appena pregresse della stagione ‘nuclearista’, ed alimento dalle relazioni internazionali che si erano addensate intorno a tale temperie.

Può essere interessante osservare come le arti visive, nella misura dell’intento ‘figurativo’, tendano a bidimensionalizzare il proprio assetto propositivo: lo fa la logica figurativa di Warhol, così come quella di Lichtenstein, ma come anche quella di Giosetta Fioroni o di Franco Angeli e dello stesso Domenico Gnoli o di Mathelda Balatresi per rimanere in Italia. Come ben appare evidente, spostandoci dall’America all’Europa, all’Italia, le cose cambiano profondamente. Ma questo, ovviamente, è tema di altre riflessioni.

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