Compie sessant’anni il movimento di FLUXUS, che sembra andare a rinverdire le atmosfere DADA, pur tentando di dire cose, invece, diverse

La vicenda di Fluxus è molto complessa, non definita nel suo statuto (malgrado il ‘manifesto’ che ne stese George Maciunas nel 1963) ed è variegatamente articolata nelle sue parti. Nasce nel 1962, ma occorre anticipare di qualche anno il reale inizio della formulazione del suo pensiero e del suo sviluppo attivo.

Il movimento di Fluxus intendeva mettere a centro delle cose la vita stessa, la vita come continuo divenire e, però, la intese come una serie di momenti staccati spazialmente configurabili e giustificabili.

Per effetto di ciò, il processo diveniristico del tempo – che pure gli autori di Fluxus, in primis John Cage, avevano considerato nella sua primaria importanza  – si trovò depotenziato rispetto allo spazio, divenendone, sostanzialmente, una funzione.

1 John Cage

2 – George Maciunas e il Gruppo di Fluxus a Wiesbaden nel 1962

Può essere utile aver conto del rapporto che Fluxus istituisce con l’insegnamento di Duchamp; e proprio John Cage ne riconosce lo straordinario valore, mettendone in rilievo, in particolare, la speciale considerazione del tempo, ma avvertendo, tuttavia, che Duchamp stesso, in qualche modo, subordina, nel dualismo spazio-temporale, il tempo allo spazio.

Non  a caso è la delocalizzazione dell’orinatoio di Duchamp dal suo sito funzionale (il bagno di decenza) ciò che ne consente la trasformazione in ‘Fontana’, in un diverso contesto di nominazione ed eventualmente espositivo, andando a soddisfare, in questo caso specifico, peraltro, le ragioni argomentative messe in evidenza da Benjamin che valutava la condizione ambientale della fruibilità (locale, ma, per estensione, anche intellettuale) come un fattore decisivo nella determinazione della consistenza artistica (Austellungswert).

In fondo, occorre ricordare che Dada aveva provveduto, certamente, con Duchamp, a disvelare il valore  del tempo, indicandone il ruolo, ad esempio, nella formazione del cosiddetto ‘coefficiente artistico’.

Ben Vautier

Fluxus, in seguito, avrebbe voluto immaginare, in avanzamento di proposta, di poter  andare, tutto sommato, anche oltre Dada, procedendo a divaricare tra la dimensione del tempo (opportunamente esaltato nelle sue peculiarità evenienziali) e quella  dello spazio,  considerando comunque, però, che la rilevanza ormai conclamata del ruolo del tempo, non avrebbe dovuto scalfire la autonomia irrinunciata dello spazio – all’interno delle dinamiche creative dell’arte – di uno spazio che, anzi, nel rapporto dialettico col tempo, sembrerebbe potersene e doversene porre come fattore regolativo.

Lungo tale asse di sviluppo, può essere fissato l’indirizzo identitario di ciò che possiamo definire il versante americano di Fluxus; ma, non si rivela meno imprimente, nel senso di privilegiare la datità spaziale nella produzione creativa dell’ ‘evento’, anche ciò che potremmo definire il versante europeo del  movimento di Fluxus, di cui additeremo, in proposito, almeno le personalità di Ben Vautier – di fatto francese, ma napoletano di nascita – e del tedesco Wolf Vostell.

Fred Forest, 1 – La Conference de Babel, 1983; 2 – Tirer des fils, 1988

Sulla consistenza fenomenologica di Fluxus si è molto discusso e, per molti versi, se ne è distorto e falsificato il pensiero lungo un processo che, forse, è stato, talvolta, addirittura di ‘autofalsificazione’ (almeno secondo l’intendimento del significato di ‘falsificazione’ proposto da Fred Forest), come quando, ad esempio, non si è inteso, da parte di Fluxus, che doveva essere necessario lasciar comprendere che esisteva una radicale differenza tra l’’evento’ e la ‘performance’, essendo il primo l’autonomo ed imperscrutabile  ‘prodursi’ ‘dell’’ accadimento e la seconda la ‘produzione’ deliberata e volontaria di ‘un’ accadimento.

Sull’onda di tale confusione, spesso, a dire il vero, anche difficile da dirimere, è potuto avvenire che, in punto critico e storiografico, si sia finito con l’accorpare, ad esempio, le dinamiche ‘Fluxus’ e quelle ‘Body’ che sono significativamente accostabili nel segno dell’intervento performativo, ma non delle ragioni ispiratrici. È evidente che esse  hanno certamente nella prospettiva ‘concettuale’ la propria ‘matrix’, ma è altrettanto necessario osservare che, tuttavia, non possono essere arbitrariamente confuse.

Marina Abramovic, Imponderabilia (gli spettatori devono passare nello strettissimo varco tra i due corpi nudi di Marina Abramovic e del suo compagno)

Ci rendiamo conto di ragionare sul filo del rasoio, ma le azioni di Marina Abramovic, ad esempio, hanno conto sostanzialmente del corpo e vanno a stabilirne la relazione con lo spazio, attraverso l’incontro con l’altro che può essere il partner della performance o il pubblico o addirittura entrambi.

Il controllo del corpo, ad esempio, che Marina Abramovic può rendere praticabile, non è esercitabile, invece, da parte di John Cage nei confronti degli oggetti di cui egli fa uso nel contesto dei suoi interventi ‘musicali’, ove i suoni non sono prodotti dagli strumenti abituali, ma da oggetti della vita comune.

L’apice musicale, confessa, in proposito, non senza ragioni, John Cage, è il suono del traffico. Il fattore della casualità è dirimente e l’intervento del fruitore diventa fattore decisivo, al di là del fatto che il suo coinvolgimento attivo abbia una sua caratterizzazione di carattere sostanzialmente ‘spaziale’, come possiamo osservare, ad esempio, nella performance di Allan Kaprow, ‘Yard’, del 1961, presentata a New York, in cui gli spettatori furono invitati a muoversi in uno spazio completamente riempito di vecchi pneumatici d’automobile.

Appare evidente, da tali considerazioni, che i temi posti da Fluxus sono significativi e molteplici ed è interessante osservare che le soluzioni creative proposte da tale corrente sono sempre state geniali sul piano artistico, pur denunciando, come abbiamo già potuto osservare, la difficoltà di cogliere i confini della perimetrazione del suo processo di sviluppo, confondendone i tratti con altre prospettive creative di analoga capacità di valorizzazione dello svolgimento processuale.

Allan Kaprow, Yard, 1961

Merita sottolineare che Fluxus ha avuto il merito di comprendere appieno le potenzialità del ‘coefficiente artistico’ duchampiano, anche se ha inteso mantenere ancora viva una dialettica spazio-temporale al cui interno sembrerebbe di poter dire che la valorizzazione del tempo avviene considerandolo come una sorta di ‘status’ reso percepibile dalle articolazioni dello spazio.

In Fluxus, insomma, non esisterebbe tempo se non esistesse lo ’spazio’; ed in questo, in fondo, Fluxus, pur avendo intuito il ‘valore’ del tempo e pur avendo inteso il collegamento istituito da Duchamp tra ‘fattore tempo’ e percezione fruitiva (nella sintesi del ‘coefficiente artistico’) rimane ancora ancorato a Dada.

John Cage rifiuta, in particolare, di attribuire un significato alla musica; e ciò gli consente di disarticolare il processo fruitivo spostando l’asse estetico dalla ‘comunicazione’ alla ‘percezione’: non ne rinnega il senso, insomma, ma ne nega il significato.

Ciò gli permette di valorizzare la dimensione soggettiva nell’ambito fruitivo (a spese della considerazione dirimente del ruolo del tempo), garantendo, però, comunque – e questo è un merito importante – una sorta di verifica, come già abbiamo osservato, di quel processo di differenziazione che F. L. Gottlob Frege aveva stabilito tra ‘Sinn und Bedeutung’.

E Cage sostiene, con chiarezza, d’altronde, invocando addirittura Kant, che la musica non ha e non deve avere significato: esattamente come la risata.

Tale notazione è di particolare e pregevole rilievo per condannare, ad esempio, qualsiasi intendimento, o, peggio, qualsiasi uso simbolistico della musica in quanto tale, anche se occorre rilevare che gli orientamenti generali di Fluxus, invece, come processualità di coinvolgimento partecipativo, non si presentano del tutto immuni da scivolamenti simbolistici, che Filiberto Menna, opportunamente, non mancherà di riconoscere, ad esempio, nelle esperienze di ‘happening’ di Vautier, non meno che in quelle di ‘performance’ di Beuys.

Che Beuys, poi sia, probabilmente, non proprio opportunamente associato dalla critica alla compagine Fluxus, questo è tutt’altro discorso.

Tutto ciò apre la strada, inoltre, ad una prospettiva di ampliamento di quella stessa posizione di rifiuto simbolistico che aveva già additato, in ambito ‘astrattista’, ‘Abstraction-Invencion’, e cui Arden Quin aveva cercato, a fine anni ‘40, di dare spessore (non seguito fino in fondo, occorre aggiungere, dai suoi successori nei decenni avvenire), consigliando una geometria obliqua ed asimmetrica.

1 – Alison Knowles, Tunnel

2 – Camillo Capolongo, Senza parole e con lingua

D’ altra parte, anche all’interno di Fluxus, sembra farsi strada una certa deriva che definiremo ‘di scuola’, quando, ad esempio, ciò che dovrebbe essere l’irripetibilità dell’evento rischia di subire una sorta di sottomissione alle istanze della  replicazione performativa, con una misura di avvitamento su se stesse delle ragioni dell’happening. Questo è il rischio in cui cade, a nostro giudizio, ad esempio, la pur generosa prestanza creativa di artisti come Nam June Paik o  Alison Knowles, che si colloca, quest’ultima, nella scia, almeno per certi versi, di alcuni aspetti della ‘Danger Music’ di Dick Higgins, della quale va considerata l’alta carica di coinvolgimento soggettivo, non scevro da slittamenti, talvolta, di ordine simbolistico.

Certamente per Fluxus occorreva tentare di ‘liberarsi’ della ‘pesante’ eredità di Dada, senza disconoscerne il portato, ma riuscendo a scavalcarne i limiti.

L’impresa sembra riuscire abbastanza  egregiamente a John Cage in particolare, forse, un po’ meno a Maciunas, che si lascia prendere, talvolta, dalla spettacolarizzazione del gesto, finendo così col non comprendere che proprio l’istanza della spettacolarizzazione costituiva la spia allarmante di quel tema cruciale del rapporto spazio-temporale cui non poteva essere sufficiente immaginare come soluzione quella adombrata dallo stesso John Cage, quando, citando Duchamp, considera di grande spessore il valore ‘spaziale’ della sua ‘scultura musicale’.

Fluxus, occorre ancora osservare in conclusione di questa breve nota, ha avuto una sua parte importante anche nella cultura artistica italiana e napoletana in particolare; trovando qualche isolato pioniere, come Peppe Desiato – già negli anni ‘50 intelligente antesignano – e, poi specchiamento nell’azione di molti gruppi nel contesto dell’ ‘Arte nel Sociale’, lungo il corso degli anni ’70, suggerendoci di considerare non certo l’esemplarismo diretto di Fluxus appunto, ma sicuramente una sorta di fascinazione, come possiamo superbamente apprezzare nell’opera straordinaria dell’immenso Camillo Capolongo.

(Le immagini che corredano questo testo sono prelevate dalla Rete da fonte ‘Wikiart’ di pubblico utilizzo. Quelle, in particolare relative a Fred Forest e Camillo Capolongo, sono state eseguite dall’autore del saggio)

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