Sono trascorsi 79 anni da quel giorno della Seconda guerra mondiale

L’8 settembre 1943 il Capo del Governo d’Italia, Maresciallo Pietro Badoglio, con un messaggio alla radio, rende noto l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, firmato il 3 settembre 1943 a Cassibile, in Sicilia.  Si alza il sipario della più grande tragedia della Storia d’Italia.

Il messaggio di Badoglio è un capolavoro di ambiguità: << Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza>>.

La notizia raggiunge gli sgomenti militari italiani delle varie Armi, dislocati sul territorio nazionale ed in altri punti dello scacchiere dell’Asse (come, per esempio, la Francia o la Iugoslavia).

In molti casi le Forze Armate si sfasceranno con il dissolvimento di interi reparti, mentre in altri casi i militari italiani volgeranno le loro armi contro gli ex alleati, dando vita ad episodi drammatici come, per esempio, gli scontri di Roma tra l’8 ed il 10 settembre, l’eccidio di Cefalonia o la caduta della piazzaforte di Lero.

Alla tragedia dell’8 settembre non sfuggono nemmeno i marinai della squadra navale da battaglia della Regia Marina, le cui navi sono alla fonda nella base di La Spezia, al comando dell’Ammiraglio Carlo Bergamini.

Le navi italiano erano all’ancora di La Spezia da circa un anno, dal momento che la squadra di battaglia, dopo la battaglie di Mezzo Giugno, era stata lasciata nella base ligure in completa inattività, a causa della penuria di combustibile che ne sconsigliava l’impiego in azioni di guerra nel teatro del Mediterraneo.

Tra gli equipaggi corre tuttavia la voce che la flotta dovrà presto salvare, per dirigersi contro le navi alleate che stanno supportando lo sbarco a Salerno, nel contesto dell’operazione Avalanche.

Alle ore 17.00 dell’8 settembre l’ammiraglio Carlo Bergamini è raggiunto al telefono dall’Ammiraglio De Courten, Ministro della Marina nonché capo di Stato Maggiore della stessa, nonché dall’Ammiraglio Sansonetti, i quali lo informano dell’imminenza dell’armistizio.

I due però si guardano bene dall’informare Bergamini del contenuto delle clausole armistiziali, le quali prevedono le navi della Regia Marina dovranno consegnarsi agli Alleati.

Evidentemente De Courten e Sansonetti temono che Bergamini, militare tutto d’un pezzo e uomo dall’alto senso dell’onore, ordini l’autoaffondamento delle sue navi, così come aveva fatto la flotta tedesca nel 1919 a Scapa Flow oppure quella francese a Tolone nel 1942.

Ai vertici di ‘Supermarina’ appare chiaro che l’autodistruzione della flotta, in spregio alle clausole dell’armistizio, avrebbe non poco irritato gli alleati.

Alle 18.00 Begamini convoca a rapporto sulla nave ammiraglia, la corazzata Roma, gli ammiragli di squadra ed i comandanti delle navi, preannunciando che di lì a poco arriveranno gravi decisioni del governo.

Alle 19.45 la radio diffonde il comunicato di Badoglio. A bordo delle navi si consumano ore di fermento. Nonostante la notizia scioccante, non si registrano episodi di sbandamento o di ammutinamento. Gli uomini a bordo delle navi si mantengono vigili, mentre scrutano l’orizzonte in attesa di capire cosa vorranno fare i tedeschi.

Una cosa è certa: ove necessario la flotta difenderà il proprio onore, a costo di autoaffondare le navi.

In serata, l’ammiraglio Bergamini è raggiunto al telefono dall’Ammiraglio De Courten, il quale ordina alla flotta di salpare da La Spezia: direzione la base militare de La Maddalena, in Sardegna.

Tuttavia, l’ammiraglio De Courten omette di illustrare a Bergamini il contenuto pieno delle disposizioni armistiziali, dal momento che non gli comunica che, secondo accordi con gli Alleati, il porto di destinazione della flotta è Bona, in Algeria.

Inoltre, l’ammiraglio Bergamini non è informato che le navi dovranno portare le seguenti insegne: pennello nero a riva (cioè una bandiera nera issata sul pennone più alto delle navi) e dei cerchi neri disegnati sulla tolda, quale segnale di resa convenuto con gli Alleati.

Seppur riluttante e solo dopo aver ascoltato da De Courten che l’ordine di salpare è avallato dal Re e dal Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Bergamini esce dalla rada di La Spezia alle 03.00 di notte del 9 settembre.

La squadra da battaglia così si compone: la Roma con l’insegna di nave ammiraglia della flotta, salpò per La Maddalena, insieme alla Vittorio Veneto e Italia (ex-Littorio), che con la Roma costituivano la IX Divisione, al comando dell’ammiraglio Enrico Accorretti, con gli incrociatori Montecuccoli, Eugenio di Savoia e Attilio Regolo, che in quel momento costituivano la VII Divisione, con l’Attilio Regolo che svolgeva il ruolo di nave comando dei cacciatorpediniere di squadra con l’insegna del capitano di vascello Franco Garofalo, i cacciatorpediniere Mitragliere, Fuciliere, Carabiniere e Velite della XII Squadriglia e i cacciatorpediniere Legionario, Oriani, Artigliere e Grecale della XIV Squadriglia e una Squadriglia di torpediniere formata da Pegaso, Orsa, Orione, ed Impetuoso, nave insegna della squadriglia

Alle ore 04.13 ed alle ore 07.07, l’Ammiraglio Bergamini dirama l’ordine di massima vigilanza sulle navi contro possibili attacchi aerei. Alle ore 09.41 della mattina del 9 settembre un ricognitore tedesco avvista le navi italiane.

Le forze armate tedesche in quelle ore stavano eseguendo le disposizioni del Piano Achse, elaborato dal comando germanico subito dopo la caduta di Mussolini del 25 luglio 1943.

Il Piano Achse riguardava il da farsi per le truppe tedesche in caso di fuoriuscita dell’Italia dalla guerra, con conseguente neutralizzazione (disarmo o annientamento) dei militari italiani ed occupazione della penisola.

Con riferimento alla flotta il piano tedesco conteneva disposizioni chiare: <<le navi da guerra italiane che fuggono o provino a passare dalla parte del nemico devono essere costrette a ritornare in porto o essere distrutte>>.

Alle basi aeree del sud della Francia, dove sono schierati gli aerei tedeschi del 2 Fliegerdivision del Generalleutnant Fink, giunge un ordine preciso: attuare il Piano Achse.

A loro disposizione i tedeschi hanno anche i bombardieri Dornier Do 217 K-2, in grado di trasportare due micidiali ordigni: le bombe-razzo Hs 293 e la SD 1400X, detta anche FritzaX.

Si trattava di bombe radio-guidate, appositamente studiati dalla Lutwaffe per gli attacchi contro il naviglio avversario, aventi la forma di un piccolo aereo, con un’apertura alere di 3 metri.

Una volta sganciata dall’aereo, un motore razzo consentiva alla bomba di proseguire la sua traiettoria in aria per almeno 10 secondi, alla velocità di 600km/h. Esaurita la spinta, la bomba cominciava a planare e nel suo percorso era guidata da un pilota operatore, il quale dall’aereo indirizzava la bomba contro il bersaglio.

Nel frattempo, le navi italiane, che procedono alla velocità di 22 nodi, si dirigono verso La Maddalena,

Alle ore. 14.24, tuttavia, Supermarina comunica a Bergamini di dirigere verso Bona, dal momento che la base de La Maddalena è stata occupata dai tedeschi, i quali sperano di catturare anche le navi italiane.

Bergamini, pertanto, ordina di cambiare rotta. Alle ore 15.20 gli arei tedeschi sono avvistati dalle vedette italiane, anche se i velivoli si mantengono lontani per non farsi identificare, impedendo così ai comandanti delle navi di capire se si trovavano di fronte ad arei appartenenti al vecchio nemico (gli Alleati) o al nuovo nemico (i tedeschi).

Alle 15.35 i primi aerei tedeschi iniziano l’attacco, sganciando i loro ordini da 7.000-6.000 metri di quota.

La sorpresa è totale visto che la contraerea non apre il fuoco e le navi non effettuano manovre evasive

I piloti tedeschi mirano alla corazzata Italia senza però colpirla.

Pochi minuti dopo, alle 15.45 una bomba-razzo esplode in acqua ad un metro della murata di dritta della Roma, la cui scafo è danneggiato gravemente dalla forza d’urto dell’ordigno.

La nave perde potenza e velocità, mentre l’acqua penetrata dagli squarci alla carena invade anche i locali macchine.

Alle 15.50 si compie la tragedia. Una seconda bomba-razzo centra la nave sul lato sinistro, tra il torrione di comando (dove si trova Bergamini con il suo Stato Maggiore) e la torre sopraelevata per i cannoni da 381 mm. L’esplosione tremenda sconquassa la nave: i locali motrici prodieri si allagano mentre i depositi munizioni cominciano a saltare per aria in successione, uccidendo i marinai.

La nave è avvolta dalle fiamme e sbanda paurosamente. A quel punto uno dei pochi ufficiali sopravvissuti all’esplosione, il tenete di vascello Agostino Incisa della Rocchetta, benché ferito, ordina l’abbandono nave.

Per comprendere bene quale fosse la situazione pare opportuno richiamare uno stralcio della testimonianza di Incisa, tratta dal libro “Fucilate gli ammiragli” di Gianni Rocca (Mondadori 1987): <<…la nave andava sbandando sempre più ed il personale che si trovava a poppa, incerto se gettarsi in mare dalla dritta, temendo che la nave capovolgendosi lo sommergesse, o se gettarsi dalla sinistra, dove sarebbe stato necessario un tuffo da notevole altezza, cominciò a rotolare giù dal ponte, ormai quasi verticale. Erano almeno una ventina di persone chiaramente visibili a causa del salvagente rosso che indossavano. Poi la nave si capovolse ed alcuni uomini riuscirono ad inerpicarsi sulla carena. Ma appena capovolta si spezzò in due: il troncone di poppa si immerse con un’inclinazione di 45° circa e un paio di uomini che sparivano sott’acqua aggrappati alle grandi eliche di bronzo che brillavano al sole, fu l’ultima visione che ne ebbi….>>

La tragedia si è ormai compiuta. La nave da battaglia Roma, terza unità della classe Littorio, un gioiello dell’ingegneria navale militare italiana da oltre 40.000 tonnellate, si inabissa trascinando con sé 1352 uomini, tra cui anche l’ammiraglio Bergamini e il suo Stato Maggiore, il comandante della nave Adone Del Cima.

I naufraghi sono soccorsi dall’incrociatore Regolo e dai cacciatorpediniere Mitragliere, Fuciliere e Carabiniere, costituenti il gruppo navale al comando del capitano di vascello Marini.

Intanto gli attacchi tedeschi non si fermano, visto che alle 16.29 a essere danneggiata è la nave da battaglia Italia che nonostante imbarchi 1.246 tonnellate di acqua riesce rimanere in formazione. I tedeschi continuano i loro bombardamenti sino al tramonto, senza però causare altri danni.

Rimasta priva di una guida, il comando della flotta è assunto dall’ammiraglio Oliva, con insegne sull’incrociatore Eugenio di Savoia, in qualità di ufficiale più alto in grado. L’attacco ha scompaginato la formazione, dal momento che le navi che hanno soccorso i naufraghi della Roma perdono in contatto con il resto della squadra.

In assenza di ordini del Comando Supremo o dell’ammiraglio Oliva, Marini decide di puntare sulle isole Baleari, dove giungono all’alba del 10 settembre. Le navi saranno internate a dalle autorità spagnole.

Tornando al resto della squadra, alle ore 18.40 del 9 settembre, Supermarina, informata della perdita della Roma, ordina all’ammiraglio Oliva di puntare su Malta, su cui si stanno dirigendo l’ammiraglio Da Zara, al comando di un gruppo navale partito da Taranto e composto dalle navi da battaglia Andrea Doria e Duilio, dagli incrociatori legger Luigi Cadorna, Pompeo Magno, Sciopione l’Africano e dal cacciatorpediniere Nicoloso Da Recco.

Alle 07.00 del 10 settembre i ricognitori inglesi avvistano le navi italiane, mentre alle ore 08.30 le navi italiane sono intercettate da una squadra navale della Royal Navy, tra cui figurano le corazzate Warspite (protagonista delle battaglie di Punta Stilo e di Capo Matapan) e Valiant.

Prese in consegna dagli inglesi, le navi italiane sono condotte in porto a Malta, dove getteranno l’ancora alle ore 15.00.

Il senso di soddisfazione degli inglesi si desume dalle parole dell’ammiraglio Cunningham: <<fu per me uno spettacolo emozionante e commovente veder attuarsi le mie più arrischiate speranze degli anni passati, e la mia antica nave ammiraglia, la Warspite, che aveva inferto tre anni avanti il primo colpo agli italiani, guidare in cattività i suoi antichi avversari, quella visione mi commosse profondamente e vive ancora in me. Non potrò dimenticarla mai. Invia un segnale di congratulazione alla Warspite per la sua orgogliosa e ben meritata posizione in testa alla formazione>>.

Le dimensioni del senso di frustrazione e di vergogna dei marinai al momento della resa sono testimoniate dalle parole dell’ammiraglio Angelo Iachino nella sua opera “Tramonto di una grande marina”: << in conclusione, quelle navi che erano materialmente e spiritualmente preparate per una gloriosa prova sul campo di battaglia, finirono per arrendersi al nemico, ormeggiandosi, l’11 settembre 1943, sotto i cannoni della fortezza di Malta, come, con giustificato orgoglio, telegrafò Cunningham all’ammiragliato di Londra. In questa maniera tramontò la nostra grande marina, e fu veramente un triste tramonto; sapevamo tutti che esso era diventato inevitabile ma avevamo sperato che fosse più luminoso>>.

Il relitto della Roma è oggi una tomba di guerra dove riposano 1352 uomini.

Bibliografia.

– Andrew Browne Cunningham, Odissea di un marinaio, Garzanti 1952.

– Angelo Iachino, Tramonto di una grande marina, Mondadori 1959

– Arrigo Petacco, La nostra guerra, Mondadori 1996.

– Fabio Galbiati, Le bombe antinave della Lutwaffe, Storia Militare, Vol. n. 340, Anno XXX, gennaio 2022

– Gianni Rocca, Fucilate gli ammiragli – La tragedia della Marina italiana nella Seconda guerra mondiale, Mondadori 1987.

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