Il Nazismo ha avuto un rapporto ambiguo con la ricerca creativa nel mondo delle arti figurative, un rapporto che era, di fatto, di mero compiacimento formalistico

Il rapporto che le gerarchie naziste hanno instaurato con le arti figurative è molto difficile da valutare nella sua complessa articolazione di sviluppo, potendo noi giudicare, complessivamente, tale rapporto come espressione formale di una esaltazione della volontà di potenza.

Non è molto diverso tutto ciò, potrebbe sostenersi – e non senza ragione – con quanto si osserva, nel corso della storia dell’arte di tutti i tempi (e ancora tutt’oggi), allorché ci è dato rilevare che l’arte è ritenuta uno strumento di intervento nei processi di modellazione dell’immagine del potere (politico non meno che economico o sociale).

Nel contesto nazista ciò che rende le cose un po’ più distintamente particolari consiste nel fatto che alcuni degli esponenti più significativi del regime – lo stesso Hitler, ma anche Goering – erano (o si ritenevano) degli esperti ed amavano collezionare opere d’arte del passato.

La mostra dell’Entartete Kunst del 1937

Non staremo qui a ripercorrere le tappe delle spoliazioni da loro perpetrate, che rientrano, purtroppo, nel triste elenco di tutte le razzie fatte nel corso dei secoli dai conquistatori nei confronti dei popoli vinti (Napoleone, sul punto, forse, non è stato secondo a nessuno) ma intendiamo, piuttosto, gettare un cono di luce su un altro aspetto del rapporto tra Arte e Nazismo, quello, della capacità di intervento che il regime ha inteso esercitare nell’ambito della creatività produttiva delle opere d’arte.

E qui le cose assumono un aspetto del tutto particolare sul quale potrà essere utile riflettere.

Il dipinto dei Quattro Elementi che Hitler aveva sul suo caminetto

Una prima considerazione che s’affaccia è quella di poter valutare come il pregiudizio antisemitico valga, per il Nazismo, anche nel mondo delle arti figurative; e come venga individuato nella influenza ebraica il nocciolo fondante di tutto il processo produttivo delle Avanguardie Storiche del ‘900, giudicato degenerativo, ‘giustificandone’, pertanto, l’ostracismo.

Di più, ciò che sembra infastidire il regime è la carica ‘espressionistica’ che dice di ragioni proprie della soggettività e che si afferma nella ricerca artistica dei primi decenni del ‘900 (al di là delle più o meno evidenti referenza realistiche) intendendo  farsi valere come coscienza critica della  compressione sociale che si accompagna al successo del nuovo modello alienante di società urbanizzata ed industriale che si va consolidando nel mondo.

Contro tutto ciò si propone, significativa ed incombente, pertanto, la misura d’intervento oppressivo che il regime nazista saprà mettere in campo e che giunge, infine, nel 1937, alla produzione della mostra della ‘Entartete Kunst’ (l’Arte degenerata) che costituisce il fulcro di una azione decisamente iconoclastica che andrà ad infuriare contro la produzione di una ricerca artistica che abbraccia non solo le dinamiche più decisamente ‘espressionistiche’, ma anche tutto l’insieme della ricerca di stampo aniconico (Astrattismo ecc.).

Prospettive di arte nazista nel segno del compiacimento formale

Il Nazismo, insomma, mette in atto, in tal modo, la scelta ‘destruens’ della propria linea di pensiero e noi potremmo immaginare che a tale scelta si contrapponga un proprio specifico orientamento, alla cui stregua si possa intendere soddisfatta ciò che dovrebbe essere l’istanza ‘construens’ che propriamente ispira l’indirizzo di regime.

Ma rimarremmo delusi, anche se è vero che un orientamento che il regime predilige, in qualche modo, esiste, un orientamento, peraltro, che non si afferma solo a partire dal momento della presa di potere definitiva del Nazismo nei primi anni ’30, ma precede tale contesto storico, imponendosi attraverso l’impegno di non pochi artisti che erano andati maturando l’idea che dovesse praticarsi un richiamo alle ragioni dell’arte che fosse capace di proporsi efficacemente alternativo rispetto alla deriva avanguardistica che – occorre dire – si era già fortemente allentata nella sua carica propulsiva dopo gli eventi luttuosi della prima guerra mondiale.

Bettina Feistel Rohmeder

Tutto ciò, insomma, curiosamente, non ‘distingue’ l’identità culturale di un’arte ‘nazista’, ma è sentimento diffuso che trascorre l’Europa tutta nel segno di una concezione di ‘ritorno all’ordine’, un ritorno all’ordine che dovrebbe avvenire dopo l’orgia avanguardistica dei primi due decenni del ‘900.

Ciò che emerge con grande evidenza è, pertanto, in questa prospettiva tutto sommato ‘restauratrice’, il rilievo che assume la logica figurativa intesa nella sua più alta carica di vibratilità segnica – e, quindi, espressiva – che diviene motivo saliente di una ricerca che privilegia la consapevolezza della carica ‘oggettuale’ riconoscibile nella pregnanza effettiva della datità delle cose. Il Nazismo sembra non capire il senso preciso di ciò che avviene, ma va ad ‘allinearsi’, salvo, poi, ripensarci.

Si afferma in Germania un processo creativo, che prenderà l’appellativo di ‘Neue Sachlickeit’ (Nuova Oggettività), che non è intrinsecamente legato alle logiche del regime nazista e di cui qualche autore, comunque, come Georg Schrimpf, viene guardato per qualche tempo dal regime con una certa benevolenza.

E c’è da aggiungere che la ‘Nuova Oggettivitò’ tedesca trova specchiamento nel clima di ‘ritorno all’ordine’ che costituisce l’abbrivio di una ricerca creativa – certamente antiavanguardistica – che trova riscontro anche nel resto d’Europa e negli Stati Uniti d’America, e nella stessa Unione Sovietica, ove rispettivamente troviamo artisti come Edward Hopper ed Alexander Deineka, che impersonano le sensibilità ideali dei modelli sociali e politici – manifestamente contrapposti, peraltro – entro i quali essi operano con il proprio intervento creativo.

Significativa e di particolare rilievo è la personalità di Sorolla, su cui è opportuno soffermare l’attenzione, che quasi introduce a questa temperie raccogliendo e rimodellando un’eredità simbolistica; mentre in Italia, citeremo figure come quelle di Cagnaccio di San Pietro, di Ugo da Celada, di Nicola Liberatore, di Antonio Donghi ecc. che operano nella penisola negli anni del Fascismo.

Georg Schrimpf

Ed allora? La domanda che si pone, a questo punto è quella di chiedersi in qual modo le logiche naziste abbiano immaginato di poter mettere in campo un modello ispirativo che fosse espressione autentica ed ideale del proprio sentire, mentre assistiamo solo, invece, al darsi di uno sviluppo produttivo che utilizza le logiche della ‘Nuova Oggettività’, accentuandone, come avviene, ad esempio, nella pittura di Adolf Ziegler, gli aspetti di più asciutto ed asettico lenocinio formale.

Ma basta tutto ciò, la marcata predilezione per il lenocinio formale, a poter creare una ‘identità artistica nazista’ e negare che esista un filo di continuità, sostanzialmente omologante, che trascorre le pratiche della figurazione dei decenni tra le due guerre mondiali, nel segno del ‘ritorno all’ordine’ ed al di là della rispondenza a regimi politici di natura capitalistica, nazi-fascista o socialista?

Lotte Laserstein

Sul piano formale, a parte le necessarie distinzioni che profilano le personalità individuali dei singoli artisti, non sembrerebbe possibile additare sostanziali discostamenti soggettivi da ciò che fu, complessivamente, una sensibilità ampiamente diffusa. Resta la dirimente ideologica e politica, l’intendimento e la ‘coscienza’ di ciascun artista, il suo ‘credo’ personale, la sua stessa estrazione ‘razziale’, ciò che, tragicamente finisce col fare la differenza, introducendo dei criteri di valutazione profondamente lesivi non solo della dignità umana, ma anche delle ragioni dell’arte, quando, ad esempio, osserviamo compresse dai regimi autoritari alcune specifiche personalità – pensiamo qui, ad esempio, a quella di Lotte Laserstein di origine ebraica, vittima del pregiudizio razziale – ma anche, non meno, a quella di Adolf Ziegler o di Bettina Feistel Rohmeder, sottoposte, queste, invece, dopo la sconfitta del Nazismo, ad un processo di damnatio memoriae per le loro collusioni naziste, che vi furono, e che meritano senz’altro di essere stigmatizzate, ma non di essere ritenute dirimenti della valutazione del prodotto artistico, avendo conto che, certamente, le loro posizioni furono e sono censurabili, ma non tali da poter valere come pregiudizio della loro ricerca creativa.

Certo, tutto ciò apre un dibattito importantissimo: quello della corrispondenza contenuto-forma e quello, strettamente collegato, della negazione della ‘neutralità’ dell’arte.

Ma, appunto, questo è un altro discorso.

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