Attraverso la settima arte, molti cineasti hanno tentato di anticipare con l’immaginazione non solo l’evoluzione delle tecnologie, ma soprattutto come tali cambiamenti avrebbero inciso sulla vita quotidiana.

Fin dagli esordi del cinema la ‘macchina vivente’ o semplicemente robot è stato un argomento trattato in forme più svariate, gli sceneggiatori e registi hanno “subito” il loro fascino.

L’espressione «A. I.» è stata coniata da John McCarthy (1927- 2011) in occasione di un seminario interdisciplinare svoltosi nel 1956 in New Hampshire. In quella sede si è posto l’obiettivo di costruire una macchina che imiti quanto più possibile l’attività mentale umana.

Tuttavia, le indagini sull’intelligenza artificiale hanno radici nelle tesi di Hobbes e Leibniz, secondo le quali l’intelligenza umana consisterebbe sostanzialmente nel compiere operazioni di calcolo eseguibili anche da una macchina.

Nel 2007, l’Unione europea ha lanciato il programma di ricerca ‘Feelix Growing’, con l’obiettivo di costruire «robot emotivi» che dovrebbero prendersi cura degli esseri umani, fare loro da assistenti, infermieri o badanti.

Roger Searle (1932-viv.) obietterebbe, però, che questi robot «simuleranno» i sentimenti e le emozioni, senza provarli davvero. A comprendere i segni è il programmatore, non la macchina.

I teorici Allen Newell (1927-92) e Herbert A. Simon (1916-2001), credono che si possano creare macchine del tutto simili all’uomo, in quanto considerano il pensiero come semplice manipolazione di simboli.

Il regista Steven Spielberg nel film A.I.- Artificial Intelligence INTELLIGENZA ARTIFICIALE (2001) ha una visione ottimista nella realizzazione di “macchine” dotate di sentimenti.

Questo film è ispirato da tre racconti dello scrittore di fantascienza Brian Aldiss e da un’idea del regista Stanley Kubrick. Una rivisitazione moderna di Pinocchio, i robot macchine costruite dall’uomo sono in grado di pensare e di amare.

In un futuro mai così prossimo, i coniugi Swinton, genitori di un bambino affetto da una malattia incurabile, adottano un robot. David è un bimbo meccanico, un automa

programmato per concedere amore incondizionato. David è stato costruito nei laboratori della Cybertronics Manufacturing dal professor Hobby.

All’inizio del film, il professor Hobby decide di progettare la costruzione di un bambino robot che sia in grado di amare i suoi genitori. Un’assistente del professor Hobby esprime dubbi circa i rischi del progetto. Chiede infatti: «È possibile costruire un bambino programmato per amare i genitori. Ma i genitori sapranno amarlo a loro volta?».

L’assistente solleva un problema etico, che può essere esteso all’ambito della clonazione umana. Le procedure artificiali alle quali ricorrono la coppia per avere un «figlio» producono (forse) effetti positivi sui genitori, ma non è detto che li abbiano su chi nasce in questo modo innaturale.

C’è molta più umanità e sensibilità nel piccolo robot che tra gli individui. Quando il figlio biologico di Henry e Monica guarisce (dopo essere stato ibernato per trovare una cura) i genitori decidono di disfarsi di David, che viene abbandonato dalla mamma in un bosco del New Jersey.

Così, solo e disperato, il bambino artificiale si troverà ad affrontare un mondo ostile. La freddezza disumana nel compiere il gesto dell’abbandono senza esitazioni porta a riflettere sulla leggerezza dei comportamenti e dell’incapacità di sentimenti disinteressati.

Henry (Sam Robards) che ‘adotta’ David (Haley Joel Osment) solo per compiacere i superiori, Monica (Frances O’Connor) in cerca di un surrogato del figlio, che allontana senza ascoltare le sue suppliche e le sue spiegazioni, subito dopo che le mutate circostanze lo hanno reso superfluo, il professor Hobby (William Hurt) profondamente affezionato a David, che dà il colpo di grazia alle massime aspirazioni del bambino mostrandogli la sua origine e, in un certo senso, la sua discendenza.

Spielberg dirige con mano sicura, calibrando gli effetti in base all’espressione degli affetti, una fiaba postmoderna. Gli ambienti disegnati da Rick Carter (scene) e Bob Ringwood (costumi), con gli effetti sorprendenti di Michael Lantieri, lasciano senza fiato, e alcune trovate (il gran saggio – motore di ricerca) sono memorabili, ma in questo spettacolo astrale la fanno ancora da padroni gli attori (a dispetto di chi lo vorrebbe sostituire integralmente con insipide figurette realizzate al computer). Frances O’Connor ha tutta l’acuminata, dolente ambiguità del ruolo, William Hurt è efficace e misurato molto convincente nel suo ruolo da “visionario”, Jude Law, levigato come una bambola di porcellana, interpreta bene il suo ruolo, Haley Joel Osment mostro (di bravura), tanto perfetto da sembrare finto robot David e troppo commovente per non essere vero.

Le riflessioni di W. Benjamin sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica sono applicate agli esseri viventi (come sono i robot della nuova generazione), a provare per l’ennesima volta che l’economia non solo fa girare il mondo, ma determina la vita affettiva e la costruzione del sé.

In ‘A. I.’ il regista mette in scena, la commercializzazione e la meccanizzazione dei sentimenti e, più ancora, la strumentalizzazione che gli altri compiono nella vita quotidiana, senza rendersene conto a discapito del prossimo.

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