Negli anni ’80 la canzone Wild Boys non era solo un brano che scalava le classifiche di mezzo mondo, facendo incetta di consensi positivi. Nel giro di poco tempo venne ‘eletto’ ad inno, inequivocabile, di un gruppo sociale, identifichiamolo con questa espressione, le cui origini sono da ricercare nella città, a sua volta, riconosciuta con un’espressione tratta da un noto spot televisivo di quel decennio: la Milano da bere

. Un gruppo sociale composto, per lo più, da adolescenti che venivano simpaticamente presi in giro la domenica sera, a partire dal 1983 e fino al 1988, da parte del comico Enzo Braschi nella leggendaria trasmissione televisiva ‘Drive In’.

Per chi è più grande di età sa benissimo di cosa stiamo parlando, per i più giovani invece c’è da farvi scoprire una tendenza che in quegli anni divenne, più che una moda, una semplice istituzione che sembrava non tramontare mai. Stiamo parlando dei ‘Paninari’.

I paninari apparvero nell’aria metropolitana milanese, precisamente nella zona di San Babila nei primi anni del decennio. In quel periodo a farla da padrone nei vari locali del capoluogo lombardo erano i gruppi dei metallari e dei dark. Proprio in mezzo a questi due schieramenti alcuni adolescenti o ragazzi poco più grandi, per avere molto probabilmente una loro identità rispetto altri gruppi, iniziarono a riconoscersi in una propria moda, in un proprio gergo e in un proprio stile di vita.

Indossavano abiti firmati, che potevano essere costosi, ma che le case di moda, intuito che stava nascendo una tendenza particolare, portarono i prezzi ad essere abbordabili a tutti. Si radunavano sempre di fronte a luoghi o comunque tavole calde dove si consumava cibo veloce.

I loro generi musicali preferiti erano il synth pop, dance e new romantic. La band come punto di riferimento, come abbiamo già visto, era quella del frontman Simon LeBon. Non erano disdegnati neanche gli Spandau Ballet. Tant’è che si potrebbe di dire che la rivalità vera e propria fra queste due band musicali partì proprio dai paninari. Erano anche apprezzati artisti come: Wham, Simple Minds, gli Europe, gli A-ha, i Frankie goes to Hollywood e addirittura Micheal Jackson. I film preferiti erano i blockbuster americani come Rambo e Rocky; anche Top Gun. Il piatto tipico era rappresentato dall’hamburger americano.

La moda dei paninari, comunque, non era solamente circoscritta alla città di Milano, si estese in tutta Italia, compreso all’estero, per la precisione nel Canton Ticino. Avevano persino dei valori particolari, ovvero quello che potevano essere tranquillamente attribuiti agli Yuppies: funzionare, dimostrare di valere, avere un corpo ed un’immagine perfetta, essere alla moda e fare carriera. Stranamente non indossavano mai gli abiti di questi ultimi.

Il loro vestiario era formato, prettamente, da giacconi imbottiti di piumino d’oca colorati, jeans, stivali da mandriano, le scarpe da barca, giubbotti da aviatore e di jeans, persino giacconi da vela. Erano compresi anche gli occhiali da sole Ray-Ban. Questo è, indumento più indumento meno, la base per formare la tipica ‘divisa’ del paninaro.

In merito al gergo usato comunemente dai paninari è meglio fare una precisazione, riprendendo la parodia del comico del Drive In. Il famoso ‘Trooooppo giusto’ o il ‘Trooooppo forte’, diventati addirittura dei veri e propri tormentoni all’epoca, non venivano quasi usati. Il termine realmente usato nella realtà e ripreso anche da Enzo Braschi era ‘Sfittinzia’, il cui significato è riconducibile ad una ragazza smorfiosa e poco intelligente.

Altra particolarità era quello d’inventarsi termini in inglese che con la lingua madre non avevano nulla a che vedere. Si presume che anche la famosa frase proposta più volte in tanti sketch da Braschi: ‘compilation di schiaffazzi’, non sia per nulla veritiera. Tale caricatura venne anche riproposta anche nel film del 1986: Italian Fast Food. Come detto la moda dei paninari si esaurì sul finire degli anni ’80 ma il ricordo legato a questa figura sociale particolare vive ancora in chi quel periodo lo ha visto o lo ha vissuto in prima persona.

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