A distanza di pochi anni, un’altra potenza militare si lanciò in un’altra grande impresa, senza dare ascolto alla Storia. Il 24 dicembre 1979 l’URSS invase l’Afghanistan, in appoggio del governo filocomunista impegnato nella guerra civile con i guerriglieri Mujaheddin.

Anche in questo caso, i generali, stavolta quelli sovietici, non trassero i dovuti insegnamenti della storia, non prendendosi la briga di esaminare le cause delle sconfitte dell’Impero Britannico durante le guerre anglo-afghane nel 1842 e nel 1880.

Anche in questo caso, inutile a dirlo, stessi errori già abbondantemente esaminati prima. A ciò deve aggiungersi la conformazione territoriale del paese, connotato da valli e montagne quasi impenetrabili, che costituiscono delle vere e proprie roccaforti naturali. Armati e sostenuti dagli americani i Mujaheddin inflissero una sonora sconfitta all’Armata Rossa, costringendola a ritirarsi, all’esito di una lunga guerriglia fatto di imboscate, colpi rapidi e sabotaggi.

In particolare, si noti come anche questa volta, l’illusorio dominio dell’aria fece pensare che l’esercito teoricamente più forte, quello sovietico, avrebbe dovuto avere gioco facile. Ed invero, i guerriglieri afghani, dotati dei moderni missili Stinger, abbatterono diversi elicotteri militari dei sovietici, costringendoli a rivedere le loro tattiche, limitando così il supporto aereo alle truppe di terra.

Nel marzo del 1989, il colosso sovietico, già corroso al suo interno e prossimo alla caduta, si ritirò dall’Afghanistan, con la stessa ignominia provata dagli americani dopo Saigon. La fine del conflitto afghano-sovietico, vide l’avvento del regime dei talebani ed il conseguente inizio della guerra civile contro le milizie di etnia uzbeka e tagica, arroccate nelle valli del Nord, come per es. il Panshiir.

La difficile situazione interna propiziò anche l’ascesa dell’organizzazione terroristiche Al- Quaeda del suo capo Osama Bin Laden, che, con la compiacenza dei talebani, installò nel paese diversi campi di addestramento per terroristi. L’installazione di Al-Quaeda in Afghanistan segnò anche l’inizio dell’offensiva terroristica contro gli USA e che si concretizzarono in una serie di attentati come quelli lle ambasciate americane in Kenya ed in Tanzania del 7 agosto 1998, l’attacco suicida al cacciatorpediniere USS Cole nel porto di Aden del 12 ottobre 2000 ed infine gli attentati dell’11 settembre 2001.

L’attacco alle Torri Gemelle diede inizio alla reazione degli Stati Uniti, determinati alla ricerca di un colpevole da dare in pasto all’opinione pubblica mondiale, anche per l’evidente necessità di reintegrare il prestigio perduto. Il nemico fu subito individuato in Osama Bin Laden e nel regime talebano.

La guerra in Afghanistan ebbe inizio con un duplice obiettivo: 1) prendere Bin Laden; 2) defenestrare i Talebani. Il 7 ottobre 2001, i ribelli afghani, denominati l’Alleanza del Nord, appoggiati dall’aeronautica americana e dalle forze speciali, iniziarono la loro offensiva contro i Talebani, battendoli rapidamente ed entrando a Kabul nel mese di dicembre 2001.

La prima fase dell’operazione poteva così dirsi conclusa con un successo, dal momento che i talebani erano stati cacciati e Bin Laden messo in fuga, dando così inizio ad una delle più lunghe cacce all’uomo della storia, conclusasi in casa di Abbottabad (Pakistan) il 2 maggio 2011, quando gli uomini dei Navy Seals e dei DEVGRU uccideranno lo sceicco.

Missione conclusa con successo? Assolutamente no !

In primo luogo, i Talebani erano sconfitti ma non annientati, dal momento che gli stessi, dopo la caduta di Kabul si sono ritirati nelle regioni più impervie del paese per intraprendere la guerriglia. Se la caccia a Bin Laden era stata conclusa con successo e quindi il primo degli obiettivi era stato raggiunto, gli americani stavano però clamorosamente fallendo nel raggiungimento del secondo.

La caduta di Kabul ha determinato un problema ulteriore per l’amministrazione americana: cosa facciamo ora di questo posto?

È cominciata così la lunga ed incerta fase di costruzione di uno stato amico, il cd state-building, e cioè l’instaurazione di un regime politico favorevole agli americani in una zona del continente asiatico di assoluta rilevanza strategica. Per intendersi, gli USA intendevano replicare quanto fatto in Giappone dopo la fine della II Guerra Mondiale, quando, dopo la caduta dell’Impero del Sol Levante, il nuovo apparato statale fu costruito secondo l’esigenza degli americani.

Basti pensare che l’attuale costituzione del Giappone fu elaborata dallo staff del Generale Mac Arthur, comandante in capo delle Forze Alleate in Estremo Oriente ed arbitro della vita politica del Giappone nel triennio 1945-1948. Tale modello, tuttavia non è stato replicato in Afghanistan. Le cause di ciò sono certamente ascrivibili a diversi fattori.

In primo luogo, gli USA non sono riusciti ad erigere uno Stato forte ed organizzato, preferendo affidarsi ai capi della Alleanza del Nord, tra cui ha spiccato, non certo per qualità, l’ex presidente Hamid Khan Karzai. Prima presidente ad interim dal 2001 al 2004 e poi presidente eletto fino al 2014, Kharzai ha guidato le sorti del paese, distinguendosi per un’azione politica ammantata da corruzione ed inefficienze e da una politica economica fallimentare.

Purtroppo, il fiume di denaro piombato sull’Afghnaistan non ha prodotto alcun risultato, se non quello di arricchire i disonesti alleati degli americani, a qualsiasi livello del neonato stato libero dell’Afghanistan. Alla debolezza degli alleati interni deve poi aggiungersi il comportamento del Pakistan, guidato dal mellifluo Generale Musharraf, abile nell’essere contemporaneamente amico degli USA e dei talebani.

Come anche spiegato da Gastone Breccia, nel suo libro “Afghanistan: missione fallita” (Il Mulino 2020), storicamente il Pakistan è sempre stato molto vicino alle posizioni dei Talebani, anche per l’evidente ragione di dover proteggere il proprio confine occidentale. Pertanto, anche se ufficialmente alleato con gli USA, il Pakistan ha condotto un’abile doppio gioco, destreggiandosi tra gli interessi americani e quelli dei guerriglieri talebani.

Alle ragioni della sconfitta americana deve poi aggiungersi la condotta militare, anche qui segnata dagli stessi e ciclici errori delle campagne militari precedenti. Così come i sovietici prima di loro, gli americani non sono stati in grado di controllare il territorio afghano.

A differenza del Vietnam, il contingente americano in Afghanstan ha contato su poche migliaia di uomini, distribuiti nei vari compaunds sorti nel paese. Per ovviare alla loro insufficienza numerica, gli americani hanno demandato le operazioni di guerra e la vigilanza sul territorio ai locali warlords, pagandoli profumatamente, affinché utilizzassero i loro uomini per dare la caccia ai talebani.

Tuttavia, questi novelli capitani di ventura, hanno solo intascato i compensi, senza mai profondersi in una serie attività di contrasto. Non è poi andata meglio con la costruzione dell’esercito afghano, disgregatosi come neve al sole all’accenno dei primi combattimenti nel mese di agosto. A ciò deve infine aggiungersi un errore fondamentale che ha accompagnato le campagne militari degli eserciti occidentali ogniqualvolta gli stessi siano stati impegnati in campagne militari in Africa o in Asia: la sottovalutazione del nemico.

Gli americani così come in Vietnam hanno creduto di poter vincere sulla base della mera superiorità tecnologica, non capendo di fronteggiare un nemico esperto di guerriglia, dotato di profonda conoscenza del territorio, economicamente solido e fortemente motivato. I talebani, infatti, al di là del loro aspetto, non certo da uniforme di gale di fine 800, hanno comunque dimostrato di poter sconfiggere un esercito, teoricamente più forte di loro.

Si tenga innanzitutto presente che i capi dei talebani sono soggetti che hanno combattuto nella guerra civile degli anni 90 e prima ancora contro l’Armata Rossa. Inoltre, gli stessi talebani hanno avuto l’indubbio vantaggio di muoversi su un territorio impenetrabile e che è stata la tomba di tre dei più potenti eserciti della storia: quello britannico, quello sovietico e quello americano.

A ciò si aggiunga inoltre la potenza economica degli stessi talebani, dal momento che i principali centri di produzione dell’oppio sono sempre stati nelle loro mani, assicurandosi così la provvista necessaria per reperire armi e munizioni sul mercato. Infine, i talebani hanno surclassato gli alleati su un aspetto fondamentale in ogni guerra: la motivazione del combattente.

I talebani, soprattutto in virtù del loro fanatismo religioso, hanno dimostrato una fede incrollabile nella loro vittoria ed una costanza e tenacia incredibile, combattendo una guerra lunga vent’anni, coronata dal pieno successo. Dall’altra parte un esercito apparentemente più forte e dotato del più grande arsenale al mondo ha dovuto battere in ritirata.

Ancora una volta precipitosamente. Ancora una volta con addosso la vergogna della sconfitta. Ancora una volta scontando le conseguenze di errori militari che si ripetono con una cadenza inesorabile e con incredibile precisione. Ancora una volta i soldati hanno pagato con la vita gli errori dei propri capi. Dopo Saigon un’altra lezione inascoltata. Si spera sia l’ultima.

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