Tre astrattisti su cui discutere: Kurt Lewy, il primo, Riccardo Riccini, il secondo, Rosario Buccione, il terzo. Tre stagioni dell’Astrattismo europeo.

Scegliamo discrezionalmente tre artisti, al di là delle condizioni ambientali e dei contesti di intervento, e ne osserviamo le proprietà creative astrattiste, che definiscono campi di azione idealmente collegati da una prassi creativa che si sviluppa, oltre le differenze, secondo una sotterranea disponibilità dialogante.

Il tempo che li separa non è breve e le condizioni ambientali e contestuali che li distinguono lungo tutto l’arco del primo e secondo ‘900 fino ad oggi sono certamente dirimenti: i tre Autori sono Kurt Lewy, il primo, Riccardo Riccini, il secondo, Rosario Buccione, il terzo, e, con loro, si profilano, quindi, tre stagioni dell’Astrattismo europeo.

Tre realtà storiche diverse, dicevamo, ma risultanze creative incredibilmente dialoganti: dialoganti poiché suscettibili di una considerazione di accomunamento degli ottenimenti produttivi. Né questo significa, ovviamente, che tali ottenimenti siano omologabili o sovrapponibili: dialoganti, si, efficacemente dialoganti non solo perché parlano la comune lingua ‘geometrica’, ma perché interpretano l’istanza umana e pressante di ciò che si propone come una sorta di investigazione interrogante, che diventa presto disposizione di domanda epistemologica.

Tre artisti che valgono per comprendere come possa rendersi possibile che l’Astrattismo, apparentemente lontano dalla realtà, si faccia, invece, specchio della storia e chiave di interpretazione delle vicende umane. Non a caso, l’Astrattismo si volge ad analizzare il reale fenomenico e a dare spazio alla interpretazione razionale delle cose e dei pensieri degli uomini sapendo animare declinazioni apparentemente antitetiche – e che tali non sono – come quelle di fondo ‘costruttivista’ e quelle di vocazione ‘concretista’.

Scriveva uno di loro, Riccini nel 1976: “Si tratta di produrre nell’opera l’impersonalità  delle strutture storiche del linguaggio, di quella parte d’esse almeno già presente virtualmente nei materiali linguistici scelti; di descrivere il campo epistemologico delle loro possibilità … “.

Ci si può interrogare se questi tre autori abbiano qualcosa in comune e la risposta è certamente affermativa, dovendo però subito avvertire lo storico che questo ‘qualcosa in comune’ non trova alcuna corrispondenza in una condivisione – che non c’è – di formazione, di ambiente, di tempi.

Ecco, allora, che – scavalcata anche qualsiasi ipotesi di reciproco debito esemplaristico o di influenza tra loro  – ciò che appare necessario riconoscere è la particolare evidenza di una condivisione di sensibilità che necessariamente impone di ritenere la rilevanza storica di una disposizione creativa che si propone di travalicare la finitudine dei tempi e degli spazi andando a dimostrare la necessità di una osservazione storico-critica che è quella che definisce la prestanza di un linguaggio condiviso non come istanza formale, ma come disciplina logica.

Fino a qual punto, potrebbe anche chiedersi, l’istanza logica viene a compromettere la genuinità di un empito emotivo, sovrapponendo il disciplinare d’impegno teoretico e dispositivo alla libertà motivante di una sensibilità irripetibilmente personale?

Potrebbe essere molto semplice replicare che, da sempre, l’arte dimostra come esista indiscutibilmente agente una sorta di sotterraneità dialogante che unisce – e l’accostamento non appaia azzardato – i Bronzi di Riace, ad esempio, ai due David di Michelangelo o del Bernini, al netto, evidentemente, dello scarto stilistico e temporale esistente tra tutti.

Ciò che è importante additare, è, infatti, allora, il livello di tensione interna che pervade queste quattro opere citate, tensione che è psicologica e morale, indiscutibilmente, ma è anche la tensione dei corpi che variamente si rattiene o si esprime, comprimendosi o dilatandosi, secondo il caso, in un darsi empirico che è quello della definizione formale dei rispettivi assetti.

Perché non riconoscere  questa stessa racchiusa tensione nelle opere che qui proponiamo a confronto di Lewy, di Riccini e di Buccione, avendo conto, evidentemente, anche delle rispettive provenienze d’ambito e di tempo, di ambiente e di condizione formativa dei rispettivi autori?

Ciò che emerge da tale confronto è la osservazione di una sensibilità condivisa che conclude in ‘ferma’ tutt’altro che ‘statica’ una sensibilità ‘dinamica’ di cui si coglie la disposizione di ‘frame’, così che l’assetto della condizione formale possa farsi epifania d’una rimodellazione, che è, prima che fattuale, psicologica e morale.

Procediamo ad indagare l’attività di questi artisti esemplata in tre opere che estrapoliamo dal corpus di ciascuno. Ciò che convince particolarmente, andando ad osservare, ad esempio, il dato della consistenza oggettuale che distingue tali lavori, è considerare come essi, pur facendosi portatori di ‘storie’ molto diverse tra loro, vadano a configurare una ricchezza umana che si manifesta secondo una sensibilità latamente materica, che fa da sottofondo non certo trascurabile della prescrizione ordinamentale – all’apparenza –  ‘euclideamente’ geometrica.

Lewy viene da una esperienza d’esordio decisamente espressionistica mitteleuropea, che ha subìto un temperamento disposizionale in un processo che non è stato di deriva figurativa, ma di rimodellazione organica ed essenzialistica delle ragioni del ‘vero’ ricompreso in una dinamica di nuovo conio emergente da una preziosissima disamina analitica e, quindi, astrattiva.

Questo stesso procedimento logico, magari invertendone le polarità, porta a scoprire che Riccini è in grado di costruire un universo organico che trova il proprio ancoraggio nella datità fenomenologica spostando l’obiettivo della ‘raffigurazione’ verso i territori della ‘rappresentazione’, entro i quali l’evento creativo si formula come una apparizione organica che lascia presagire la indispensabilità dell’ancoraggio ‘oggettivo’, al di là, comunque, della costituzione ‘oggettuale’, lasciando in dubbio la possibilità di verifica di una latenza ‘concretista’.

Ma proprio da una sensibilità ‘oggettuale’ – come Lewy, ma con diverso abbrivio, che nel caso del terzo artista su cui discutiamo, è di un pregresso ‘lirico’ e non ‘espressionistico’ –  prende spunto di partenza l’indagine astrattiva di Buccione appunto, che procede non per via di rastremazione del disposto espressionistico – come avviene in Lewy – ma per via di recupero di una ricerca dell’etereo, che aveva le sue radici in un’indagine sulle cose condotta attraverso la smaterializzazione del dato, che, contrariamente al prevedibile, nel farsi costrutto d’una rimodellazione ‘geometrica’, guadagna alla levità con cui era fornita l’immagine della referenza oggettuale una più robusta cadenza di definizione ordinamentale.

A noi sembra di poter dire che le tre opere sulle quali abbiamo inteso lasciar planare la nostra attenzione e che ci permettiamo di suggerire alla riflessione critica ed estetica del paziente lettore, valgano, quindi, non soltanto a dimostrare la possibilità di riscontri di corrispondenze ideali, ma anche a definire i contatti razionali che è possibile stabilire, scavalcando le ragioni delle rispettive ‘differenze’, tra opere ed autori apparentemente molto distanti tra loro ed effettivamente racchiudibili entro una sorta di ipersfera semantica ove le distanze si placano nel comporsi, ad esempio, della provenienza espressionistica di Lewy nella liricità di Buccione e della disponibilità strutturante di Riccini entro il compiuto incontro di quell’istanza epistemologica che, infine, giustifica, nella progressione astrattiva, l’evoluzione compiuta dalle prammatiche creative di Lewy e di Buccione.

Né sarà improprio osservare, in aggiunta, che questi autori scandiscono, con la produzione delle loro rispettive opere, anche dei momenti di approdo significativo della propria evoluzione di ricerca, che si compie nella sintesi astrattiva di Lewy, che muove da una figurazione abbruciata e segnicamente dirimente di matrice, ripetiamo, espressionistica; nell’approdo di Riccini alla fertilità della stagione di ‘Geometria e Ricerca’, che segna gli anni ’70 dell’Astrazione napoletana; e nell’approdo ad ‘Astractura’, infine, di Rosario Buccione, che muove l’artista a riconsiderare tutto il suo pregresso creativo per rimodellarlo alla luce del prescritto linearistico, cinestetico e cronotopico del dettato astracturista che l’artista intende ed interpreta alla luce di una coscienza di preterintenzionalità che costituisce l’ancoraggio indefettibile che fa della piattaforma più ampia astrattiva l’opportunità di tradursi in efficace sensibilità materica dotata di una sorta di levità calviniana.

Fonti iconografiche: per Kurt Lewy: Composition, anni ’50 ca. da http://lafagallery.com/inventory/gallery/587/details per Riccardo Riccini: Senza titolo, ante 1976, da AA. VV., Geometria e Ricerca, Napoli 1976 per Rosario Buccione: Senza titolo, 2019, foto dell’Artista

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