L’attimo fuggente è un film che fa parte del background culturale, probabilmente, di ognuno di noi e che in qualche maniera ha contribuito a formare la nostra sensibilità prima di studenti e poi di persone. Il grosso rischio, analizzando un’opera di tal genere, è quello di scadere nella retorica, nel banale; magari dando patenti di eroe o di antieroe a questo o a quel personaggio.

Si potrebbe considerare come la fotografia di un contesto sociale che poteva essere tipico degli Stati Uniti fra gli anni ’50 e ’60, periodo caratterizzato da significativi mutamenti sociali. A loro modo, infatti, tutti i protagonisti sulla scena si muovono con animo costruttivo, ognuno secondo i propri riferimenti culturali: ad esempio Il professor John Keating, insegnante di approccio “liberal” che si mostra fautore di una didattica tesa alla formazione individuale più che al nozionismo e che utilizza, fra l’altro, metodi volutamente non convenzionali.

Il preside Nolan, personaggio di stampo tradizional-conservatore che si pone in maniera granitica nelle sue certezze e nelle sue metodologie. Il giovane Neil Perry, preso da inquietudini e desideri che lo portano in simbiosi con gli insegnamenti di Keating e che diventerà, suo malgrado, uno dei protagonisti della vicenda; ed il padre del giovane che, al contrario, si mostrerà in naturale sintonia col preside Nolan e per il quale tutto ciò che esula da un impegno finalizzato ed indirizzato diviene inutile se non addirittura controproducente. 

Probabilmente, ad una attenta analisi, si nota qui il reale motore delle vicende che porteranno ad un tragico epilogo: nel momento in cui si scontrano personalità caratterizzate da una notevole forza interiore, ma appartenenti ad universi culturali e valoriali fra loro inconciliabili si innesca un meccanismo perverso che porterà al suicidio di chi, al contrario, ha una personalità ancora in formazione. Di chi, dunque, non possiede ancora gli strumenti emotivi e culturali per gestire vicende che finiranno per schiacciarlo psicologicamente.

Motore delle vicende è, dunque, una sorta di incomunicabilità culturale più che generazionale: esemplificativa, in tal senso, è la scena in cui una parte degli studenti sale sui banchi salutando il professor Keating (interpretato da un magistrale Robin Williams) scandendo le parole “Capitano, mio capitano” mentre un’altra parte rimane composta al proprio posto.

E’ il corto circuito che si determina, spesso, in momenti storici particolari, che potremmo definire “di transizione” in cui nuove sensibilità e modi di interpretare la realtà si vanno delineando; periodi in cui, però, i tradizionali schemi culturali sono tutt’altro che estinti ed i cui sostenitori, anzi, vistisi assediati dal “nuovo” che avanza assumono atteggiamenti decisi, per non dire brutali, nel difendere i propri convincimenti.

Si osserva, dunque, una frantumazione sociale ed i giovani, emotivamente più fragili, possono ritrovarsi, spesso, in bilico fra tradizione ed innovazione, incapaci di farne una giusta sintesi. Vi è, poi, l’elemento tragico, centrale nel film ed esposto in maniera particolarmente coinvolgente: è impossibile, per lo spettatore dotato di un minimo di sensibilità, rimanervi indifferente.

Tale elemento, in un certo senso, travalica il tempo e lo spazio: è una caratterizzazione dei protagonisti che potremmo ritrovare, ad esempio, in una antica tragedia greca. Probabilmente il segreto del successo del film è proprio nella sua universalità: pur partendo da un contesto sociale e storico ben definito riesce a rievocare in continuazione emozioni e sentimenti che sono propri dell’uomo di ogni epoca e di ogni luogo.

E’ un’opera, in sostanza, compiuta poiché qualunque spettatore, osservandola, può rivedere e rivivere, con coinvolgimento e pathos, qualcosa di sé pur non avendo mai vissuto il contesto che è stato scelto per l’ambientazione delle vicende narrate.

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