L’umanista e cantore del cinema italiano

Sono passati 5 anni dalla scomparsa del grande maestro Ettore Scola, una figura centrale del cinema italiano. Una carriera che si è fatta più di altre. Emblema dei mutamenti storici e culturali del Paese e per riflesso della cultura nazionale.

Scola con la sua attitudine verso il disegno, la scrittura e la regia ha saputo analizzare la crisi del genere nazionale. Il suo è uno sguardo che amalgama e conosce bene l’Italia, dalle sue rivoluzioni economiche a tutte le conseguenze che poi ne scaturirono, fino alle contraddizioni, ma soprattutto al senso di riscatto e di adattamento che investe i suoi personaggi.

Il cinema di questo regista ha un suo rigore e una sua particolare delicatezza. Ha un sotto-testo di raro fascino e i suoi personaggi non sono mai vaghi, ma spigolosi, ben delineati, a volte anche malinconici. Ma tuttavia sempre spontanei.

L’elemento nuovo, introdotto da Scola, nel genere della commedia all’italiana, è collegato al suo umanesimo di fondo. Ad una sua concezione del tempo e della storia, unitamente al suo impegno politico-civile.

Ettore Scola nasce in un paesino dell’Irpinia, Trevico, il 10 maggio 1931, da papà Giuseppe (medico) e mamma Adelaide Pentimalli. All’età di cinque anni si trasferisce con la famiglia, di condizioni benestanti, a Roma in via Galilei a poche decine di metri da via Tasso. In quel luogo, durante l’occupazione tedesca, vengono reclusi e torturati gli antifascisti e i partigiani, come poi verrà descritto nel film di Roberto Rossellini Roma città aperta (1945).

Durante l’adolescenza Scola nutre interessi per il disegno e le caricature. Lui stesso confessa: ‹‹Avevo la necessità di tradurre graficamente, per immagini, tutto quello che studiavo››. Ancora studente ginnasiale, inizia a lavorare come vignettista nella redazione del «Marc’Aurelio».

Terminati gli studi classici, l’attività redazionale appassiona tanto il giovane da metterlo in difficoltà al cospetto di una scelta di vita. Ovvero quella universitaria. Si iscrive dapprima alla facoltà di Medicina e la abbandona dopo tre esami, optando per gli studi forensi ma rinuncia a tre esami dalla tesi.

La produzione vignettistica dal 1949 al 1952 è imponente, circa trecento vignette, di un umorismo un po’ freddo, basate su tematiche sentimentali come la famiglia, l’amicizia, i tradimenti e le difficoltà della vita matrimoniale. Il lavoro come sceneggiatore influenza nettamente lo stile registico: la macchina da presa diviene non il fine, ma il mezzo per raccontare storie.

Ettore Scola e Ruggero Maccari formano un sodalizio lavorativo eccellente, in trentacinque anni realizzano la stesura di sceneggiature di ben 45 film, girati da altri e di 19 film sui 24 girati da Scola stesso, prima che Maccari si ammalasse e morisse nel 1989.

La lunga gavetta in redazioni editoriali e in radio, prima, le collaborazioni con Pietrangeli e Risi, poi, gli permettono di trovare un proprio stile. Felice sintesi dell’attenzione al quotidiano del primo e della feroce comicità quale strumento critico del secondo e che caratterizza Se permettete parliamo di donne (1964, con Gassman e Koscina) La congiuntura (1964, con Gassman, Collins e Bergerac) e Il vittimista (1965).

Con L’arcidiavolo (1966, con Gassman, Roonev e Auger) il regista introduce una tematica a lui cara – ripresa poi nei più tardi Passione d’amore (1980, con Antonelli e Giraudeau), Il mondo nuovo (1982, con Mastroianni e Barrault), Ballando, ballando (1983 con Pencheanat, De Rosa e Guichard), Il viaggio di Capitan Fracassa (1990, con Troisi, Girone, Muti e Perez) e Concorrenza sleale (2001 con Castellitto, Abatantuono e Depardieu), l’essenza metastorica dell’uomo, identico a sé stesso pur nel variare dei tempi.

Negli anni Settanta Ettore Scola entra nel decennio più importante della carriera, film come Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca (1970, con Mastroianni, Giannini e Vitti), Permettete? Rocco Papaleo (1971, con Mastroianni, Goldfarb e Hutton) Trevico-Torino (1969) e Brutti, sporchi e cattivi (1976) si aprono con tono giustificatorio all’universo dei poveri ed emarginati.

Scola in C’eravamo tanto amati (1974) riesce a modulare in maniera equilibrata motivi storici e sociali, politici ed esistenziali. L’innovazione nella scrittura e nello stile del racconto, aiutato dalle voci narranti alternate di tutti i protagonisti (Gassman, Manfredi, Sandrelli e Satta Flores) la pellicola scopre spudoratamente la sua vocazione teatrale, concedendosi il vezzo di permettere ai personaggi

monologhi rivolti dritti in camera, narratori dentro la scena ma al tempo stesso estranei ad essa. Ed è sempre teatrale la sospensione dell’azione cinematografica in momenti di massima tensione emotiva.

Altra pietra miliare della cinematografia di Scola è Una giornata particolare (1977) sceneggiato da Scola, Maccari e Costanzo offre bei dialoghi e lascia spazio a una sottile speranza finale: il libro di Dumas regalato da Gabriele (Marcello Mastroianni) ad Antonietta (Sophia Loren) rappresenta la possibilità che – attraverso la conoscenza – il popolo potrà prendere coscienza della realtà.

Il dramma o “commedia tragica “, secondo la definizione di Scola è “a porte chiuse”, nell’incontro-scontro di due entità essenziali alla deriva, ma il respiro narrativo è tale da chiamare in causa ciò che sta “fuori” e che vediamo/sentiamo esclusivamente per via mediale (il cinegiornale d’apertura, la radiocronaca della “grande parata”).

Il film, tra i più belli interpretati dalla coppia, è il confronto tra queste due umanità unite dalla sofferenza provocata dal regime: la donna è un semplice mezzo di produzione per la macchina bellica, mentre i dissidenti sono voci fuori dal coro ignorate e lasciate a morire nell’oblio del confine.

Alla fine degli anni Sessanta, con l’affievolirsi della satira di costume, Scola fa i conti con la borghesia, oggetto di una commedia ormai incapace di cogliere i delicati cambiamenti sociali in atto. Attraverso i personaggi di Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968, con Sordi e Manfredi) e la loro sintomatica fuga dalla realtà e dalle contraddizioni del consumismo, e Il commissario Pepe (1969, con Tognazzi) che paga di tasca sua lo scoprire gli interessi del Potere a cui è posto a tutela, si arriva alla condanna definitiva dell’italiano

furbo e arruffone ne La più bella serata della mia vita (1972, con Sordi, Simon e Vanel) modello poi saltuariamente recuperato più per gioco che altro. Per esempio negli episodi di Signori e signore, buonanotte (1976, con Mastroianni, Gassman e Tognazzi). Da qui il cinema dell’autore di Trevico subisce un cambio di registro.

Negli anni Ottanta lo sguardo di Scola sulla realtà si fa più amaro e disilluso. Con La Terrazza (1980) un film che chiude la grande commedia di questo regista, un mosaico umano, questo, attualizzato a trent’anni di distanza da Paolo Sorrentino con La grande bellezza (2013), ritratto che rappresenta il vuoto della borghesia senza passione, storie e modelli.

La malinconia dei crepuscolari Maccheroni (1985, con Lemmon, Mastroianni e Nicoldi), Splendor (1989, con Mastroianni, Troisi e Vlady), Che ora è (1989, con Troisi, Mastroianni) cede il posto al turbamento. Scola guarda indietro con nostalgia nel film Mario, Maria e Mario (1993, con Scarpati e Cavalli) e con sgomento all’oggi in un Romanzo di un giovane povero (1995), non c’è più spazio per la risata, I nuovi mostri (1977) prima derisi ora non consentono indulgenza alcuna.

La claustrofobia è spesso presente nei film di Scola basta fare qualche esempio La famiglia (1987) e Passione d’amore (1981).

Dopo i documentari della Fondazione Cinema nel Presente, con Gente di Roma l’autore torna alle amate microstorie in un attento e appassionato ritratto del melting pot della capitale; nel 2013 realizza la sua ultima opera cinematografica Che strano chiamarsi Federico, fuori concorso a Venezia 2013 è il ritratto di un maestro e amico che ha condiviso con Scola la stessa gavetta.

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