Il 7 dicembre 1941, verso le ore 8.00 (ora di Honolulu), gli operatori radio dei comandi del Pacifico dell’esercito e della marina statunitensi, rimasero atterriti davanti ad un messaggio appena giunto: “Incursione aerea Pearl Harbor. Questa non è un’esercitazione”. Il messaggio era stato inviato dal comandante Logan Ramsey, alle ore 7:58 del 7 dicembre 194. Tre minuti prima, alle ore 7.55, gli aerei della Flotta Imperiale Giapponese avevano iniziato l’attacco sulla base navale di Pearl Harbor.

L’evento che ha portato all’entrata in guerra degli Stati Uniti di America, allargando così la II Guerra Mondiale al teatro dell’Oceano Pacifico, fu il frutto di un brillante, quanto audace, piano elaborato dal comandante in capo della Flotta Imperiale Giapponese, l’ammiraglio Yamamoto. Senza dimenticare i suoi più stretti collaboratori: il comandante Genda ed il contrammiraglio Onishi.

Genda ed Onishi, due esperti di tattica aereonavale, grazie anche all’apporto di Mitsuo Fuchida, asso dell’aviazione navale giapponese. I due proposero di sferrare un attacco contro Pearl Harbor, utilizzando un numero considerevole di bombardieri ed aerosiluranti decollati dalle portaerei.

L’elaborazione del piano beneficiò anche delle indicazione provenienti dall’attacco aereo sferrato dalla Royal Navy alla base navale di Taranto, la sera dell’11 novembre 1940. Utilizzando 21 vecchi aerosiluranti, decollati dalla portaerei Illustrius, gli inglesi affondarono 3 corazzate italiane (Littorio, Conte di Cavour e Caio Duilio), compromettendo così la forza di combattimento della Regia Marina. Come commentò il comandante in capo della Mediterranean Fleet, l’ammiraglio Andrew Cunningham: “questo colpo ridusse, se non abolì del tutto, la minaccia della flotta nemica”.

La notte di Taranto dimostrò quindi che era possibile attaccare una flotta nemica alla fonda in un proprio porto, utilizzando dei velivoli decollati da una portaerei per infliggerle dei danni considerevoli, per poi rientrare al sicuro alla propria base di partenza. Il tutto senza ricorrere allo grande battaglia navale ed ai duelli di artiglieria tra corazzate.

Questa lezione strategica fu ben recepita dai giapponesi, i quali, si servirono degli insegnamenti inglesi per risolvere un ulteriore problema che avrebbe potuto compromettere l’operazione. I fondali del porto del Pearl Harbor, infatti, presentavano una profondità di appena undici metri. Troppo poco perché i siluri lanciati dagli aerei non andassero ad urtare contro il fondale.

I giapponesi sfruttarono le esperienze acquisite dagli inglesi nel Mediterraneo, dove gli stessi, oramai avevano elaborato efficaci tecniche di siluramento in acque poco profonde, utilizzando un semplice accorgimento: installare delle tavolette di legno sulla parte posteriore dei siluri, facendo sì che gli stessi, una volta giunti in acqua, dopo essere stati sganciati dagli aerei, si stabilizzassero immediatamente senza inabissarsi.

Nel corso dei mesi che precedettero gli attacchi, uomini dei servizi segreti giapponesi raccolsero una mole considerevole di informazioni sulle istallazioni militari ed aeroportuali di Pearl Harbor, trasmettendo tutto a Yamamoto. Nello stesso periodo, i piloti dell’aviazione imbarcata giapponese furono sottoposti a lunghi ed estenuanti turni di addestramento.

La data scelta per l’attacco doveva cadere di una domenica, dal momento che gli agenti giapponesi avevano notato che il comandante in capo della Flotta del Pacifico, l’ammiraglio Kimmel, era solito far rientrare tutte le navi in porto e che quando queste erano in rada, a molti uomini dell’equipaggio era concesso scendere a terra.

L’ammiraglio Yamamoto sperava con il suo attacco di distruggere in un colpo la Flotta Americana del Pacifico, confidando altresì nella possibilità di affondare le portaerei americane, il vero obiettivo dell’attacco. Alle prime luci dell’alba di domenica 7 dicembre 1941, gli arei giapponesi, per un totale di 360 velivoli, decollarono dalle portaerei Kaga, Akagi, Hiryu, Soryu, Shokaku e Zuikaku, scortate da numerose altre navi da guerra, al comando dell’Ammiraglio Nagumo.

L’attacco fu suddiviso in due ondate. Tuttavia, prima che gli aerei della prima ondata giungessero sull’obiettivo, accaddero due episodi che avrebbero dovuto mettere in allarme gli americani. Il primo, si riferisce alla circostanza che, qualche ora prima che gli aerei decollassero, un sommergibile tascabile giapponese fu affondato alle ore 3.55 da una cacciatorpediniere di pattuglia, mentre cercava di penetrare nel porto di Pearl Harbor. Successivamente un secondo fu affondato dagli aerei della marina alle ore 7.00.

Inoltre, poco dopo le 7.00, i radar americani localizzarono gli aerei giapponesi in avvicinamento a Pearl Harbor. Gli operatori di radar non ritennero opportuno lanciare l’allarme, dal momento che gli aerei giapponesi furono scambiati per una formazione di 12 bombardieri B 17 in arrivo dalla California. Alle ore 7.55 gli aerei giapponesi piombarono sulla base americana.

I piloti dovettero constatare con rammarico l’assenza delle portaerei americane, che in quel momento si trovavano in navigazione, distanti diverse miglia marine da Pearl Harbor. I piloti furono costretti ad accanirsi sulle altre navi in rada. La corazzata, Arizona colpita da diverse bombe, saltò per aria uccidendo più di 1.000 marinai. Analogamente furono affondate le corazzate West Virginia, California, Nevada e Oklahoma (quest’ultima si capovolse).

Le altri navi della flotta, comprese le corazzate Maryland, Pennsylvania e Tennessee furono gravemente danneggiate. Colpiti duramente furono anche gli aeroporti e le altre installazioni portuali, mentre furono distrutti 188 aerei e danneggiati 63 aerei. Alla fine dell’attacco 3435 marinai e soldati americani rimasero uccisi mentre i giapponesi lamentarono solo la perdita di 29 aerei e la morte di un centinaio di piloti.

Il colpo di mano giapponese, sferrato senza una formale dichiarazione di guerra, come prevedeva allora la consuetudine ed il diritto internazionale, scatenarono l’indignazione e la collera degli americani, animati da un profondo senso di vendetta. Eppure, per quanto possa sembrare paradossale, i giapponesi cercarono di evitare quest’ultimo aspetto, tentando di far coincidere l’attacco con la formale consegna della dichiarazione di guerra.

La lunghezza del testo, gli intoppi e forse anche la sfortuna, fecero sì che l’ambasciatore giapponese consegnasse il documento al Segretario di Stato solo dopo mezz’ora che l’attacco era cominciato. L’attacco giapponese fu un successo apparente, dal momento che le portaerei sfuggirono alla distruzione. Questa circostanza costerà cara a Yamamoto, quando nel giugno nel 1942. La Flotta Imperiale Giapponese subì la propria nemesi alla battaglia di Midway, ad opera delle portaerei americane scampate a Pearl Harbor.

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