Negli anni difficili di Palermo, ricordati e fatti conoscere doverosamente ai posteri, riecheggiano, quasi sempre, i nomi dei giudici che si opposero a ‘Cosa Nostra’ e che pagarono il prezzo più alto per il loro impegno civile profuso contro la criminalità organizzata: Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il primo, diciamo la verità, sembra esser finito quasi nel dimenticatoio. E’ vero che dal quel tragico 29 luglio del 1983 sono trascorsi quasi quaranta anni. È pur vero che la generazione di coloro nati negli anni ’80 hanno più memoria per ciò che accadde a Falcone e Borsellino che per Chinnici. Ma come abbiamo ricordato nell’articolo dedicato proprio alla figura del Consigliere dell’Ufficio Istruzione della città palermitana, la settimana scorsa, non fu il solo a saltare in aria di quel leggendario pool antimafia. Fu il padre putativo di quel gruppo di uomini, volontari, che affrontarono i ‘mammasantissima’ della Sicilia a viso aperto.

Nel pool oltre ai giudici citati più volte c’erano, in particolar modo, due commissari sfrontati, temerari e che vennero trucidati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro in quella calda estate del 1985. Il primo era il Vice Dirigente della Squadra Mobile e il secondo, invece, era il commissario della sezione ‘Catturandi’. Quest’ultimo si chiamava Giuseppe Montana e fu ucciso per primo: il 28 luglio del 1985, nel porto di Ponticello a Santa Flavia, mentre rientrava con la sua barca dopo una giornata trascorsa con amici; il secondo si chiamava Antonino detto ‘Ninnì’ Cassarà.

La morte di Montana rappresentava molto di più di un semplice avvertimento per Cassarà. Entrambi, oltre che grandi colleghi erano anche grandi amici nella vita, diedero notevole apporto alle indagini svolte dai magistrati e, senza alcuna ombra di dubbio, definiti come la ‘lunga manus’ del pool per le strade del capoluogo siciliano. Il modo di fare e di lavorare di Ninni Cassarà gli procurò non pochi problemi; persino all’interno dello stesso gruppo di del pool

Prima di giungere a Palermo, Cassarà prestava servizio a Trapani. Seguendo una pista in relazione ad un caso fece una retata in una bisca clandestina. In quel luogo si ritrovò davanti diversi pezzi grossi della città, gente importante, e a causa di ciò venne trasferito in quella che era la vecchia Squadra Mobile della città di Palermo, divenendo grande amico dei giudici molte volte nominati.

Grazie a lui, oltre che a Montana, venne stilato quel famoso documento prodromico, nella quasi totalità, del futuro Maxiprocesso. Documento conosciuto come ‘Rapporto 162’, in cui venne ricostruito il primo organigramma completo della mafia, più l’esplicazione delle cause che provocarono la prima storica guerra tra le cosche negli anni ’60. Mentre la seconda scoppiò il 23 aprile del 1981 con l’uccisione del boss Stefano Bontate.

Ci fu anche la sua firma nei 366 mandati di arresto contro i Boss di Cosa Nostra la notte del 31 luglio del 1984 e, addirittura, anche contro gli esattori della città: i cugini Salvo. Proprio su questi due Cassarà si ritrovò in conflitto con Falcone. Durante il processo istruito con lo scopo di scoprire chi fossero non solo gli esecutori materiali, ma anche i mandanti della morte di Rocco Chinnici, anticipò un importante tassello delle indagini che doveva rimanere segreto. Nel rispondere alle domande del giudice il Commissario rivelò che tra la mafia e i cugini Salvo sussisteva un rapporto di complicità. Questo mossa azzardata avvenne prima della data indicata precedentemente per quanto riguarda i 366 arresti.

Il contrasto emerse per il semplice fatto che il Commissario Cassarà sbagliò i tempi, non il modo visto che il Giudice Falcone era sulla stessa lunghezza d’onda con il poliziotto. Il problema che il Giudice Istruttore aveva bisogno, per suffragare tale verità, degli ulteriori riscontri. Il risultato non fu positivo per lo stesso Vice-capo della squadra mobile: venne isolato dal pool per diverso tempo, fino a quando non gli cadde addosso un’altra tegola: quella del 28 luglio del 1985.

Tre anni prima perse, sempre per mano della mafia, un altro suo caro collega e amico: Calogero Zucchetto. Entrambi, a bordo di una vespa, erano soliti perlustrare alcune zone della città. Un giorno incrociarono due mafiosi a bordo di un’auto. Questi ultimi riconobbero il povero Zucchetto, che lo freddarono all’uscita di un bar con dei colpi d’arma da fuoco alle spalle il 14 novembre del 1982.

Ninnì Cassarà era consapevole che prima o poi sarebbe toccato anche lui quel tragico destino. Lo intuì ancor di più con la morte di Montana. Terribilmente profetica fu la sua frase riportata da una delle ultime interviste del Giudice Paolo Borsellino: ‘Convinciamoci che siamo cadaveri che camminano’. Frase esternata proprio la sera del 28 luglio del 1985. Pochi giorni dopo toccò a lui.

Quel 6 agosto del 1985 Cassarà rientrò a casa dopo due giorni che non si faceva vedere dalla moglie. Fu un caso che telefonò per avvertire delle sue intenzioni. Ad attenderlo in un palazzo antistante al suo portone un vero e proprio plotone di esecuzione. Con il commissario, in macchina, c’era Roberto Antiochia, un giovane collega fattosi trasferire da Roma per stare a fianco al suo amico. Al posto di guida, invece, il poliziotto Pasquale Mondo.

I tre giunsero in viale Croce Rossa, la strada di Cassarà. Antiochia scese dalla vettura e una volta aperto lo sportello per far scendere il suo Ninnì, vennero investiti da una pioggia di proiettili proveniente dalle finestre delle scale del palazzo antistante. Roberto Antiochia morì sul colpo. Antonino Cassarà, invece, fu ferito da un proiettile di rimbalzo alla aorta. Morì dissanguato sulla prima rampa di scale. Accanto a lui la moglie che aveva assistito la scena dal balcone e, nel raggiungere il marito, lasciò la piccola figlia fra le braccia di un vicino di casa. Per quanto concerne Pasquale Mondo, l’unico sopravvissuto di quella tragica giornata, venne anche lui ucciso ma il 14 gennaio del 1988.

Antonino detto Ninnì Cassarà, nato il 7 maggio del 1947 a Palermo, chissà se si ricordava che quello stesso giorno era il quinto anniversario della morte del giudice Gaetano Costa. Con la sua morte la squadra mobile cessò di operare come prima. Una squadra mobile costituita non da uomini ufficialmente assegnati dallo Stato, ma costituita da persone volontarie, che credevano in quello che facevano. Tutti siciliani. Uno spirito che ritroveremo quando nel mese di ottobre, il giorno 22 per l’esattezza, ricorderemo un altro grande poliziotto di Palermo e la sua leggenda, ucciso il 21 luglio del 1979, nel giorno di quello che doveva essere il suo novantesimo compleanno: il Commissario Giorgio Boris Giuliano. Colui che fece nascere la prima vera squadra mobile di Palermo e le sue indagini furono proseguite dal Pool ideato da Rocco Chinnici.

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