Continua a non placarsi il momento di tensione negli Stati Uniti d’America, dove non solo le manifestazioni si sono moltiplicate, non solo è stata annunciata una grossa marcia per il prossimo 28 agosto per i diritti civili, in cui cade il 57° anniversario di quella originale, ma sono state, addirittura prese di mira statue di personaggi abbastanza ambigui e non solo negli Usa; ma di questo ne parleremo nell’articolo di domani.

Il calendario, però, ci offre ancora spunti sull’argomento che non esulano dall’attualità ma sono collegati grazie alla storia ricordata, tra l’altro, dalla rubrica ‘Storie vere’ di ‘Universo Cinema&Serietv’. Una storia poco nota da noi e rimasta più entro i confini americani, una vicenda prima che giudiziaria di mero eroismo e di patriottismo statunitense. Un eroe, dunque, poco conosciuto ma molto attivo al pari di Martin Luther King. Il suo nome era Medgar Evers.

Anche lui afro-americano, mississipiano ed americano. Nel 1943 si arruolò nell’esercito, combattendo in Francia durante il secondo conflitto mondiale, per poi essere congedato con onore due anni più tardi e con il grado di sergente. Era nato il 2 luglio del 1925 e dopo l’esperienza bellica decise di iscriversi all’Alcorn State University a Lorman, nello Stato del Mississippi.

Durante i suoi studi, incominciati tre anni dopo al termine della Seconda Guerra Mondiale, sposò, esattamente nel 1951, la persona che negli anni avvenire si batterà per lui: Myrlie Beasley Evers, che è ancora tra noi. Dopo la laurea si trasferì, con la moglie, a Mond Bayou, dove entrò in contatto con il Regional Council Of Negro Leadership, un’organizzazione a favore dei diritti civili.

Fu proprio in quel periodo che Medgar Evers incominciò la sua battaglia contro il razzismo e per un’America più attenta alle questioni razziali. Prima non disdegnò la propria formazione politica, per poi incominciare attivamente con il boicottaggio delle stazioni di servizio che, sistematicamente, negavano i neri l’uso dei servizi igienici.

Ma le sue più grandi battaglie furono quelle relative all’accettazione, da parte degli atenei pubblici, delle singole iscrizioni di studenti afro-americani; infatti nel 1954, Medgar, inviò anche la sua con l’intenzione di studiare giurisprudenza presso l’Università del Mississippi, nonostante i neri non potessero accedervi.

Una volta rifiutata la sua richiesta la National Association for Advancement of Colored People, meglio conosciuta come la Naacp, per la campagna di quello stesso anno contro la segregazione razziale si batté a sua volta. Ma non solo per lui, ma per tutte le richieste d’iscrizione rigettate precedentemente. Il coinvolgimento di Medgar Evers provocò, positivamente, la reazione della Corte Suprema la quale, il 17 maggio del 1954, pronunciò la storica sentenza conosciuta come ‘Brown vs Board of Education’ attraverso la quale dichiarò incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Il 24 novembre di quello stesso anno, Medgar Evers, venne nominato primo segretario della Naacp.

Ma non finisce qui: dopo la storica vittoria datata 17 maggio del 1954, Medgar Evers indaga su un efferato caso di cronaca avvenuto il 28 agosto del 1855: un undicenne, afro-americano, proveniente da Chicago, si recò nel Mississippi, nella contea di Money, per trovare i propri parenti. Il suo nome era Emmet Till. A causa di un solo sguardo rivolto ad una donna bianca, il ragazzo venne massacrato di botte fino alla morte. Medgar Evers, secondo quanto è emerso, si sarebbe travestito da raccoglitore di cotone per individuare i veri responsabili.

Le sue lotte proseguirono anche gli anni successivi. Dopo la sentenza nel 1954 otto anni più tardi, nel 1962, lottò per far ammettere il primo studente nero di nome James Meredith all’Università del Mississippi. Venne addirittura coinvolto i un ulteriore boicottaggio: quello nei confronti di commercianti che vendevano solo ai bianchi.

Il suo attivismo sociale, dunque, le sue battaglie non conoscevano soste; nemmeno quando il 28 maggio del 1963 venne lanciata una bottiglia molotov nella rimessa di casa sua. Fu l’unica avvisaglia: perché tredici giorni più tardi venne assassinato davanti casa sua con una fucilata alle spalle, sparata dal fanatico razzista e membro del Ku Klux Klan Byron De La Beckwitt.

Era la notte in cui il Presidente John Fitzgerald Kennedy, tra l’11 ed il 12 giugno del 1963, parlò alla nazione proprio in merito alla questione razziale. Queste furono le sue parole ancora molto, molto attuali: “Diamo una soluzione a questi problemi nei tribunali, non nelle strade. Servono nuove leggi, ma non basta la legge a far capire qual è la cosa giusta. Siamo di fronte ad una questione morale. Il problema è se a tutti gli americani spettano gli stessi diritti e le stesse opportunità, e se trattiamo i nostri fratelli americani come vorremmo essere trattati noi. Se un americano solo perché ha la pelle scura, non può mangiare in un qualsiasi ristorante, non può mandare i propri figli nelle migliori scuole, non può votare per i propri rappresentanti, non può godere di una vita libera e completa, come tutti noi desiderassimo, allora, chi di noi sarebbe disposto a cambiare il colore della sua pelle? Chi si accontenterebbe di avere pazienza di aspettare? Cento anni di attesa sono passati da quando il Presidente Lincoln ha liberato gli schiavi, ma i loro eredi non sono ancora completamente liberi: non sono liberi dalle catene dell’ingiustizia. Non sono liberi dall’oppressione sociale ed economica. E questa nazione, con tutte le sue speranze e le sue capacità, non sarà mai libera finché tutti i suoi cittadini non saranno liberi. Noi predichiamo la libertà in tutto il mondo, perché ci crediamo, e vogliamo essere proprio noi a dire al mondo, e, quello che più conta, a noi stessi che in questo Paese tutti sono liberi tranne i negri? Che non si sono cittadini di seconda classe se non i negri? Che la nostra non è una società classista, che non c’è una classe dominante, e che tutto questo però non vale per i negri? E’ arrivato il momento per il nostro Paese di mantenere le sue promesse. Gli eventi di Birmingham hanno moltiplicato il grido di uguaglianza, a tal punto, che nessuna città, o Stato, o corpo legislativo può prudentemente decidere di ignorarlo. Fiamme di frustrazione e di odio ardono in ogni città, a nord come a sud, dove non sono possibili interventi legali. Nelle strade ci si fa giustizia da soli. Siamo di fronte ad una crisi morale sia come Paese che come popolo e questo non si può risolvere con un’azione repressiva della polizia. E’ il momento di agire all’interno del Congresso, negli Stati e nei corpi legislativi locali, e soprattutto nella vita di tutti i giorni. Un grande cambiamento si avvicina, e il nostro compito, il nostro dovere, è rendere questa rivoluzione, questo cambiamento, pacifico e costruttivo per tutti. Chi non fa niente è complice della vergogna, oltre della violenza. Chi agisce con coraggio riconosce un diritto, oltre che una realtà”. Myrlie Evers si batté per ottenere giustizia per la morte di suo marito per ben 30 lunghi anni, onorando al meglio il coraggio di suo marito e di un eroe ancora troppo poco conosciuto: Medgar Evers.

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