Musicato da Philip Glass, il regista Paul Schrader realizza un biopic non convenzionale
Mishima – Una vita in quattro capitoli non è un semplice biopic. È un’architettura narrativa visionaria, un mosaico estetico e filosofico che cerca di penetrare l’enigma Yukio Mishima: scrittore, patriota, esteta, samurai moderno. Diretto da Paul Schrader (già sceneggiatore di Taxi Driver), questo film del 1985 è un’opera di culto che unisce cinema, teatro e letteratura in un’armonia formale quasi ossessiva.
Il film si sviluppa su tre piani distinti ma intrecciati con maestria: il racconto del giorno finale di Mishima – il 25 novembre 1970, quando mise in atto il suo celebre seppuku dopo un colpo di scena teatrale; flashback della sua vita reale, dall’infanzia malata al successo letterario fino alla deriva nazionalista; e infine la trasposizione cinematografica di tre delle sue opere più celebri (Il padiglione d’oro, Kyoko’s House e La casa di Kyoko), messe in scena con scenografie stilizzate che sembrano quadri viventi.
La trama ruota attorno all’ultimo giorno di vita di Yukio Mishima, scandito in quattro capitoli simbolici: La bellezza, L’arte, L’azione e L’armonia della penna e
della spada. Mentre l’autore si dirige verso la base militare dove tenterà un colpo di stato, il film alterna flashback della sua giovinezza e del suo percorso artistico, con incursioni visive nei suoi romanzi, usati come specchio della sua ossessione per l’estetica, la disciplina e la morte. Il climax arriva con l’atto finale del seppuku, messo in scena con un rigore rituale che riflette l’ideale estetico ed esistenziale dell’autore.
Ogni “capitolo” riflette una parte dell’identità di Mishima: bellezza, arte, azione e morte. Schrader non cerca di giudicare, ma di comprendere. Ed è proprio questa tensione – tra estetica e ideologia, tra vita e rappresentazione – che rende il film un’esperienza così ipnotica. La colonna sonora di Philip Glass, con il suo minimalismo incalzante, amplifica la sensazione di assistere a un rituale, più che a una narrazione lineare.
Visivamente, il film è una meraviglia. Il direttore della fotografia John Bailey alterna bianco e nero, colori saturi e luci teatrali per distinguere i diversi livelli narrativi, ma sempre con una coerenza stilistica che avvolge lo spettatore in un’atmosfera onirica.
Non è un film facile, e nemmeno vuole esserlo. Richiede attenzione, riflessione e una certa sensibilità per la bellezza formale. Ma chi è disposto ad addentrarsi nella mente di uno degli intellettuali più controversi del Giappone moderno, troverà in Mishima un’opera unica, intensa, e profondamente affascinante.
Un capolavoro visivo e concettuale, a cinque stelle, che sfida le regole del biopic per diventare un’opera d’arte totale.