Una breve serie di appuntamenti per celebrare i sessanta anni della marcia più famosa della storia dei diritti civili negli Stati Uniti d’America

In merito alla pronuncia della corte federale il 21 marzo di quello stesso anno non più 2500 manifestanti, ma bensì 8000 persone marciarono da Selma a Montgomery per richiedere il rispetto e l’applicazione del diritto di voto in favore della comunità afroamericana. La terza fase della leggendaria marcia fu più lunga del previsto, ma sempre in maniera positiva. Non tutto finì in quel giorno d’inizio primavera. La vittoria venne certificata quattro giorni più tardi, esattamente il 25 marzo quando il Premio Nobel per la pace tenne un discorso improvvisato davanti al tribunale della contea.

Nonostante la vittoria storica, leggendaria per i diritti civili, dopo la tragedia di James Reeb, il famigerato Ku Klux Klan lasciò sulla sua strada un’altra vittima innocente. Questa volta una donna afroamericana, di carnagione chiara, ma con un nome che diventerà italianissimo: Viola Fauver Gregg, semplicemente l’attivista per i diritti civili Viola Liuzzo. Ma di questa storia ne parleremo più avanti e anche qui, per questo 2025, ci sono date importanti da ricordare e non solo il giorno della morte, ovvero lo stesso 25 marzo del 1965, ma anche per il giorno della nascita che per il momento non sveliamo.

Dopo quel giorno, dopo quel 25 marzo del 1965, il diritto di voto finalmente esteso anche alla comunità afroamericana e ancora oggi, nonostante l’ombra del razzismo è ancora forte, viene ugualmente applicato con tutti i crismi che si richiedono. Ma per quanto riguarda Martin Luther King? Dopo quell’ennesima conquista per i diritti civili quale fu il suo prossimo obiettivo?

La domanda ci riporta direttamente alla ricorrenza di oggi, ricordata ed anticipata nella penultima parte di ieri, in cui riportavamo l’esatto orario in cui la speranza di milioni di afroamericani venne spezzata da un unico suono sordo di uno sparo che trafisse per sempre il Premio Nobel per la pace.

Ad ucciderlo, sempre come detto ieri, fu, almeno secondo la versione ufficiale, quella rimasta nei famosi documenti segreti ormai declassificati da Donald Trump, sarebbe stato il razzista James Earl Ray. Nome alquanto sinistro ed evocativo, soprattutto perché composto da tre parole, dell’altro attentato solitario del 22 novembre del 1963 a Dallas, Lee Harvey Oswald. Eppure, lo stesso Ray non parlò mai, non disse nulla in merito. Non entrò mai nei dettagli del movente e né tantomeno chi ci fosse dietro, eccetto durante il suo ultimo periodo di vita.

Infatti, proprio nel 1988 lo stesso James Earl Ray, malato da tempo e in punto di morte, sembrava essere pronto a svelare qualche dettaglio, qualche particolare che avrebbe, non tanto riaperto le indagini, fatte continuare; perché nei fatti le stesse, soprattutto ufficiosamente, non si sono mai chiuse. A distanza di 57 lunghi anni dalla morte del leader dei diritti civili gli interrogativi sono ancora molti, troppi.

L’elenco dei sospetti, l’elenco delle ipotesi, piste o addirittura di quelle verità o mezze verità dette e non dette hanno sempre riempito il caso di attenzioni che hanno finito, soprattutto, con distrarre l’attenzione sul vero movente, quello che è rimasto di fatto oscuro nel corso di questi lughi decenni.

È facile attribuire il tutto al razzismo, che di fatto è comunque una delle ipotesi plausibili. Eppure, anche noi di FreeTopix, avvertiamo che quasi sicuramente c’è molto di più. anche se le sue battaglie, le sue lotte, miravano al benessere della propria comunità, aprendo la strada anche ad altre etnie per poter permettere di alimentare il sogno americano, Martin Luther King si spingeva sempre più in là, oltrepassando sempre di più quella linea di confine che forse aveva anche intuito di aver di fatto superato.

Non a caso la sera prima della sua morte pronunciò un discorso in cui aveva visto la cima della montagna e cosa in realtà c’era: quello che aveva sperato proprio nel leggendario discorso di quasi cinque anni prima. Sempre in quell’occasione affermò anche che tutti quelli che credevano in lui e che lo avevano persino seguito in quelle crociate contro la segregazione razziale non dovevano temere se al momento della realizzazione del sogno lui non sarebbe stato con loro, perché lo aveva visto prima degli altri, lo aveva visto prima di tutti. In poche parole: Martin Luther King se lo sentiva che sarebbe stato ucciso.

Non sappiamo quando di preciso incominciò a pensare veramente la sua fine, ma più si spingeva oltre e più, quasi sicuramente, diventava consapevole che i rischi per lui erano sempre più alti. In fondo, quando attacchi un sistema, un modo di pensare è inevitabile che ti fai i nemici. Nemici, appunto. Una parola che molto spesso è solamente riferita alla parte avversa e non tanto tra le cerchia ristretta di chi ti circonda come poi successe a Malcom X. Fra i due era risaputo che non scorresse buon sangue e nonostante tutto, quando il leader nero della Nation of Islam venne assassinato, King rilasciò comunque una parola per lui.

Ciò dimostra un solo fatto e molto probabilmente altri esempi possono essere citati in merito, ovvero il messaggio che Martin Luther King ha lasciato al mondo è stato, è ancora e sarà universale: ossia un messaggio di mera pace e fratellanza fra gli uomini ed i popoli. In quel suo discorso, I have dream, c’è tutta l’essenza di voler portare il mondo verso la strada giusta: quella del dialogo reciproco e del rispetto reciproco, indipendentemente dal colore della pelle, dell’etnia di appartenenza o del credo sia religioso che politico.

Eppure, a distanza di 57 lunghi anni e dopo tutto quello che è successo e che sta accadendo in questa epoca dalle atmosfere troppo oscure ed incerte, sembra che nessuno abbia recepito il messaggio fino in fondo. Certo, avremmo dovuto soffermarci sui possibili motivi della sua morte, del suo misterioso omicidio; ma neanche questo sarebbe bastato, perché di fatto saremmo caduti anche noi nella trappola della speculazione su quale sia la vera direzione da seguire nelle indagini.

A dire il vero questa presunzione non l’abbiamo e abbiamo preferito soffermarci e dilungarci sulla leggendaria marcia che garantì in tutto e per tutto il diritto di voto alla sua comunità afroamericana.

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