Reportage sullo scandalo che portò nella prima ed unica volte nella storia un Presidente degli Stati Uniti a dimettersi

Nell’appuntamento precedente avevamo chiuso con l’espressione, in riferimento alle varie opere, sia letterarie che cinematografiche passate sotto la nostra lente d’ingrandimento, che la finzione è la finzione, la realtà è la realtà. non togliendo, assolutamente, l’esatta ricostruzione che i due film hanno fatto della vicenda, nei diversi momenti storici non solo trattati ma soprattutto ricordati.

Dopo un breve ritratto della carriera politica del Presidente Nixon e dell’impatto culturale sulla letteratura e sul grande schermo appare normale, oggi, per non dire anche sacrosanto, occuparci di quello che successe dopo quella notte del 17 giugno del 1972. Anzi, sarebbe meglio dire se fosse successo veramente qualcosa? Intendiamoci senza essere sibillini.

Vogliamo dire, aggiungendo un dettaglio non proprio di poco conto, che gli Stati Uniti, proprio in quell’anno aveva visto la perdita improvvisa dello storico capo del Federal Bureau of Investigation, l’Fbi in poche parole. Stiamo facendo riferimento a J. Edgar Hoover. Di fatto il quesito che ci poniamo e che vi poniamo: cosa sarebbe successo se fosse sopravvissuto a quel malore fatale? Come abbiamo sempre detto, anche in altri temi trattati la storia non si fa né con i sé e né con i ma. Dunque, cosa accadde, a questo punto, ai cinque che vennero prima colti in flagranza di reato e poi arrestati?

Fin dalle prime indagini molte cose non quadravano. Non era criminali da strapazzo quei cinque misteriosi personaggi, di cui quattro erano anche addirittura di origine cubana. Presentavano abiti troppo costosi, ben organizzati, anche se beffati da un particolare seppur non proprio di poco conto e stranissimo collegamento ad un comitato molto, ma molto particolare. nonostante si era nel pieno delle primarie per le presidenziali, ripetiamo per il Partito Democratico, nessuno poteva immaginare quello che sarebbe venuto fuori. Il comitato a cui uno dei cinque era stranamente collegato era quello per la rielezione dello stesso Richard Nixon.

Il nome che attirò più di tutti, rispetto all’intero gruppetto di improvvisati scassinatori, era James McCord. Costui presentava un passato di tutto rispetto: ex colonnello della riserva dell’aereonautica militare ed anche un ex agente sia dell’Fbi e, addirittura, della Cia. Oltre che il già citato comitato in favore di Richard Nixon. Tra l’altro i cinque erano in possesso anche di documenti molto particolari da cui rimbalzò un nome che fece drizzare le antenne non solamente agli inquirenti ma anche ad altre due persone in particolare; ma a loro ci arriveremo fra poco.

Precisamente, in quei documenti, non era solamente in nome a destare scalpore; semmai c’era un contatto telefonico che in quella città, nella capitale, era molto conosciuto: era il numero della Casa Bianca e il nome della persona era E. Howard Hunt, meglio conosciuto come un agente segreto e scrittore statunitense.

Ma le indagini che ne conseguirono non furono solamente portate avanti dall’istituzione da poco orfana di Hoover. No, nella mischia fece parte lo stesso comitato per la rielezione di Nixon e due integerrimi ed anonimi cronisti del quotidiano Washington Post. Gli stessi che incastrarono Nixon, sviluppando l’inchiesta per il giornale, pubblicando, alla fine, il bestseller che ispirò il film del 1976: Bob Woodward e Carl Bernstein.

I due furono fin da subito coinvolti nelle indagini dal loro capo redattore. Entrambi giovani ed ambiziosi, sia Bob Woodward e sia Carl Bernstein avevano dalla loro un passato di tutto rispetto. Woodward era stato ufficiale della marina, mentre Bernstein, dal canto suo, vantava ben dodici anni di carriera giornalistica alle spalle, dunque più esperto in un certo senso rispetto al suo collega.

I due, senza perdersi d’animo, seguirono la storia fin dall’inizio raccogliendo più informazioni possibili, ricostruendo il castello che c’era dietro ai cinque e strani scassinatori. Se l’Fbi scoprirono tutti i collegamenti del caso, anche loro fecero altrettanto riuscendo a scoprire che la notte del 17 giugno quella particolare azione criminale rappresentava, in verità, un vero e proprio piano per cercare di spiare e sabotare le mosse del Partito Democratico.

D’altronde il partito che fu di John Kennedy non perse tempo, il giorno all’arresto dei cinque, a farne un affare di Stato, buttando la questione solo ed esclusivamente sulla politica. A parte ciò, sia Bob Woodward e sia Carl Bernstein riuscirono a scoprire che la mente di tutto fu un certo G. Gordon Liddy, un particolare ex agente dell’Fbi ed esponente di estrema destra che convinse John Newton Mitchell, capo del comitato per la rielezione del Presidente Nixon a compiere quella che si sarebbe poi chiamata ‘Operazione Gemstone’.

In un primo tempo, lo stesso Mitchell non era convinto. Solo a marzo del 1972, incontratosi nuovamente sia con Liddy, Jeb Stuart Magruder, il vice di Mitchell, in una cittadina dello Stato della Florida, Key Biscayne, l’operazione iniziò a decollare con tutti i crismi richiesti. Fin da subito di tali intenzioni ne era informata la stessa Casa Bianca.

Difatti, nel film del 1976, come anche nell’inchiesta pubblicata due anni prima, Bob Woodward e Carl Bernstein si insospettirono quando, alla ricerca di Edward Hunt, chiamando la Casa Bianca ricevettero una strana risposta: che al momento nessuno era stato ancora incriminato per il Watergate. La stranezza era che nessuno dei due osò fare quel tipo di domanda durante quella conversazione telefonica nel tentativo di rintracciare Hunt.

Non solo, per venire a capo di tutta la faccenda, lo stesso Woodward si avvalse della segreta collaborazione di un informatore che solamente anni dopo venne svelato il suo nome. Tra il 1972 ed il 1974 tale persona manterrà l’anonimato con il nome in codice di ‘Gola Profonda’. Solamente nel 2005, dunque trenta anni più tardi, si scoprì che si trattava di Mark Felt, nonché il vicedirettore dell’Fbi.

Ma non finisce qui. Ci sarebbe anche altri due nomi che fino adesso non abbiamo in alcun modo sfiorato, ma che erano, nel dietro le quinte, molto coinvolti. Si tratta di John Dean e di Ron Ziegler. Soffermandoci, prima, su quest’ultimo bisogna ricordare che a quei tempi, Ziegler, era il portavoce della Casa Bianca; durante le prime conferenze stampa dedicate al fatto lo stesso Ziegler bollò l’affaire Watergate come ‘uno scasso di terza categoria’. Magari fosse stato veramente così.

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